Il centrosinistra scompare al secondo turno del voto nei Comuni. Era il terreno per tradizione più favorevole, le amministrative.
Grazie anche al modello elettorale più indigesto per la destra, il doppio turno. Ma il Pd, con la sua debole o inesistente rete di alleanze, si è come dissolto, salvo casi isolati da cui è impossibile ricavare una tendenza che non sia negativa. Unica vera eccezione, Vicenza. Come fu Brescia al primo turno. Ma forse si dovrà ricordare che il candidato vicentino, Possamai, ha fatto la campagna chiedendo che il vertice romano del partito non si disturbasse a dargli una mano e restasse nella capitale. Così come due settimane fa la bresciana Laura Castelletti si era imposta al primo turno per le sue peculiari radici nel tessuto civico ed economico della città.
A voler essere impietosi si dovrebbe dire che il Pd è al suo “anno zero”. Forse non è proprio così, e comunque auto-fustigarsi è un esercizio sterile. Elly Schlein si è insediata da poco e quindi le vanno riconosciute, entro certi limiti, le attenuanti. Le ironie di Salvini vanno messe nel conto e peraltro qualcuno potrebbe ricordargli che i dati elettorali — grazie anche ai buoni candidati messi in campo — consolidano la leadership di Giorgia Meloni e consegnano lui, l’uomo che pochi anni fa vantava un consenso del 34 per cento, alla condizione definitiva dijunior partner del centrodestra. Detto questo, è evidente che soltanto un irresponsabile potrebbe sottovalutare il disastro del centrosinistra e rinviare una seria riflessione sulle conseguenze del voto.
Non è questione di circostanze sfortunate o del poco tempo avuto dalla neo-segretaria per rimodellare la propria creatura. Le proporzioni della sconfitta chiamano in causa la strategia, l’idea di partito che la leader ha coltivato. Di qui il massimalismo delle scelte, il rinchiudersi nel circolo ristretto dei collaboratori fidati, la mancanza di un nesso politico o anche solo pratico tra il vecchio e il nuovo gruppo dirigente. L’altro giorno l’immagine solitaria di Schlein nella sua breve ricognizione delle aree alluvionate era la più malinconica ma veritiera fotografia di una leadership che non incide. Che non comunica alla maggioranza degli italiani, ma solo all’arcipelago delle minoranze. Probabilmente pochi avevano previsto il quasi “cappotto” nei Comuni, ma gli ottimisti, coloro che credevano in un risultato confortante, erano ancora meno.
Qualcuno nel Pd dovrà farsi coraggio e dire che non tutto è perduto, che alle elezioni europee manca un anno e quindi c’è tempo per risalire la china. A patto di parlare un linguaggio di verità, visto che Spagna e Grecia stanno scivolando a destra, indice di una spinta che potrebbe cambiare l’assetto politico dell’Unione. Nel Pd la fascia degli scontenti si sta allargando. Finora certi argomenti sono stati respinti con un’alzata di spalle da Schlein. Eppure il richiamo al riformismo economico e istituzionale è tutt’altro che banale: equivale al tentativo di raccordarsi con una tradizione laica e cattolica che è stata in apparenza abbandonata in nome di una radicalizzazione poco meditata e soprattutto fallimentare nel rapporto con gli elettori. Si è tentato di inseguire i Cinque Stelle con l’obiettivo di recuperare un po’ di voti, neutralizzando Conte e il suo gruppo. Il risultato è che i 5S proseguono nel loro declino e il Pd li segue a ruota.
Da oggi si può continuare con la retorica ovvero ci si può disporre a un bagno di realismo. A partire dal fatto che la vocazione riformista, tipica dei momenti migliori del centrosinistra storico, va recuperata il più presto possibile. Questo comporta non un’auto-critica in stile sovietico, ma un riesame delle priorità. Il rischio è che dal Pd nascano due partiti: uno riformista e uno massimalista. Un regalo troppo grosso a Giorgia Meloni.