«Nello, fin da piccolo, si può dire, era stato come mentalità – non come pensiero, ma intendo come espressione e formazione del pensiero – agli antipodi di Carlo. Per cui in fondo questo spiega il loro accordo costante. Si completavano. Per quanto Carlo era passionale e dinamico, Nello era riflessivo e interiore (…). Carlo, dal pensiero, correva all’attuazione, e specialmente in quei primi anni era unilaterale. Nello invece aveva fin d’allora un’obiettività di storico di fronte a ogni questione, che considerava d’istinto sotto tutti gli aspetti»: è il brano di una lettera che Amelia Pincherle Rosselli (1870-1954) indirizzò da Parigi all’amico Gaetano Salvemini il primo agosto 1937. Da poco (9 giugno) era stata colpita dall’atroce dolore dell’assassinio dei suoi due figli, Carlo e Nello, in un agguato ordito a Bagnoles-de-l’Orne dai servizi segreti italiani, probabilmente su comando di Galeazzo Ciano. Nelle misurate parole si coglie una finezza che unisce l’inconsolabile affetto della madre all’acume dei ritratti psicologici dei due protagonisti. Amelia non poteva fare a meno di evocare il figlio maggiore Aldo, caduto nel 1916 sul fronte carnico.

La lunga missiva è una delle 213 che comprendono la corrispondenza tra Amelia, scrittrice, prima donna italiana a pubblicare un testo teatrale, e Salvemini, notissimo storico che aveva preso la via dell’esilio pur continuando a seguire le vicende italiane. A eccezione di quattro, le lettere si sgranano dal 1937 al 1954, anno della scomparsa di Amelia. Che era cresciuta in una famiglia ebraica dell’alta borghesia veneziana partecipe dei moti risorgimentali e ardente mazziniana: tra i suoi esponenti annoverava personalità di primo piano. Membro illustre ne era il fratello architetto Carlo, il padre di Alberto Moravia.

Questo volume – “Non ci è lecito mollare” Carteggio tra Amelia Rosselli e Gaetano Salvemini a cura di Carla Ceresa e Valeria Mosca (introduzione di Simone Visciola, saggio conclusivo di Gigliola Sacerdoti Mariani, Effigi, pp. 354, € 20,00) – arricchisce una spessa e frammentata bibliografia. Il materiale proviene dall’archivio di famiglia ora passato all’Archivio di Stato di Firenze e dal Fondo Salvemini, sistemato nell’Archivio Storico della Resistenza in Toscana. Sobriamente annotate, hanno la freschezza di un colloquio non insidiato da ufficialità e reticenze e proprio per questo sono una fonte di sicura autenticità. Dal brano riportato in apertura si evincono non solo i temperamenti di Carlo e Nello, ma anche il peso specifico dei loro contributi a un antifascismo che affondava le sue radici nell’epopea democratica del Risorgimento e tentava di individuare una via d’uscita teoricamente nuova rispetto alle ideologie sconfitte.

È commovente la tenacia con la quale Amelia difende Nello da sospetti che non avevano ragione di essere e l’insistenza con cui si oppone al proposito di far uscire presso la Scuola Storica diretta da Gioacchino Volpe le ricerche del figlio. Sarebbero state usate – riteneva – come dimostrazione della liberalità del regime nel sostenere libri non allineati. Ma per godere di un tale aiuto l’autore avrebbe dovuto privatamente assicurare di non occuparsi di politica. Nello, che subì due periodi di confino, rispose alle profferte con fierezza, dichiarando che non intendeva affatto rinunciare al diritto di libera critica. A quanti attribuivano alla sua «inflessibile obiettività storica» il rischio che attenuasse uno «spirito di parte» rispondeva esaltando il rigore di un metodo che non accettava volgari strumentalizzazioni. Quando ottenne il passaporto per necessità di studio si malignò di un certo avvicinamento al regime. Non è escluso che fosse anche un tranello per scoprire, pedinandolo, dove si era rifugiato Carlo.

Le chiacchiere lambivano pure Amelia, che a quanti la rimproveravano per i suoi rapporti con Nanda Ojetti, moglie di Ugo, intellettuale benvoluto da un accorto sistema totalitario, controbatteva che l’amicizia non sottintendeva alcun equivoco: «Ci sono in Italia, di queste amicizie che cercano di resistere e planer al disopra delle divisioni o meglio degli abissi politici» (lettera del 7 settembre 1937).

Dal 1903, dopo la divisione dal marito, Amelia si era trasferita da Roma a Firenze e da allora i suoi comportamenti divennero sempre più attenti al maturare di una situazione nuova. Dopo la tragedia del ’37, nel luglio del ’39 lasciò la Francia per approdare infine nel 1940 a Larchmont nei pressi di New York e vi restò fino al ’46, allorché fece ritorno in Italia. Il dialogo con Salvemini si intensifica avendo a tema il futuro destino della patria, che, come scrisse, non è un territorio, ma «l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio». Salvemini, irruento, credeva che cooperare col re e con Badoglio fosse un «suicidio mortale» e, a Liberazione avvenuta, temeva che «l’Italia vada verso una guerra civile in cui socialisti e comunisti non sapranno neanche salvare il proprio onore». Nel giugno 1945 si sbilanciò in un giudizio aspro sul Partito d’Azione e perfino sull’amatissimo Parri: «Ma non dispero che a un certo momento Parri si liberi dalla stretta e mandi tutti a gambe all’aria».

Un moralismo furente domina ogni parere e lo porta fuori strada. «Quante volte – confida l’8 agosto 1945 (lettera 96 da Dark Harbor, Maine) – ho pensato a Carlo e a Nello in questi tempi. Non è vero che la storia è fatta sulle ‘masse’. La storia è fatta dagli individui». Amelia ha coscienza dei limiti del loro stile: «Forse il nostro torto, il nostro errore fu di limitare la lotta a una cerchia ristretta». Amelia ringrazia (ottobre 1951) l’esule, che confessa di continuare a sentirsi esule nell’Italia ritrovata, per gli articoli affidati al «Mondo» in difesa – ancora – del calunniato Nello. Ma gli consiglia, con la dignità che la distingue, di non continuare la «dolorosa polemica». La figura di Amelia che ignora fumose invenzioni, splende qui per la sua lucida serenità, per la nettezza delle sue posizioni.