La scommessa, vinta da de Certeau e vinta da Guardini, come attesta la crescente fortuna del loro pensiero anche fuori dall’ambito ecclesiale, è che, nel loro esercizio di decifrazione, anche la ragione umana, secolare, cresce fruttuosamente in un’autocomprensione purificata da distorsioni, unilateralismi e patologie, diventando capace di ritessere la trama lacerata della convivenza umana e dell’identità personale, di neutralizzare il ruolo della violenza, di spezzare l’isolamento individualistico così come l’oppressione collettivista, ricostruendo forme di coscienza personale e comunitaria non ingannevoli e non ingannate, non manipolate e non manipolatrici, libere e liberanti.
Il campo dell’arte è fondamentale per Romano Guardini, in questa pratica teologale che, leggendo la storia e l’esperienza alla luce della verità della fede, ne fa emergere l’architettura antropologica universale («l’essenza», dice l’autore), iscrivendo la sapienza cristiana risorsa fondamentale dell’esercizio fenomenologico di autocomprensione dell’umano.
In poche pagine cristalline, questo piccolo testo sull’opera d’arte fornisce un saggio esemplare del progetto guardiniano, evidenziando la fecondità dell’approccio transdisciplinare e la sua insuperata potenzialità critica. Senza pretendere di sviluppare qui un’analisi dettagliata, mi limito a individuare due tesi di fondo sviluppate nel libro, che mi sembrano estremamente rilevanti ancora oggi per determinare e valutare il ruolo dell’arte nella società contemporanea.
Le due intuizioni in questione si cristallizzano attorno alle nozioni di incontro e promessa, qualificabili come un movimento di sistole e diastole dell’opera d’arte. È la logica di «opposizione polare» che per Guardini caratterizza la processualità stessa del vivente, scandita da una tensione tra poli contrastanti (carne/spirito, universale/particolare, forma/contenuto, soggetto/oggetto ecc.) che è inesauribile (mai dialetticamente superata, come postulato dall’idealismo hegeliano) perché feconda, generativa e non distruttiva, fatta di sinergia e complementarità e non di alternatività esclusiva. Lungi dall’essere in antitesi, il qui e l’oltre, l’incontro e la promessa, si configurano come processi interdipendenti dell’esperienza da cui nasce e che a sua volta instaura l’opera d’arte, come espressione e fonte di senso in cui autore e destinatario attingono a una comprensione depurata della propria «essenza umana»: della dimensione universale della propria concreta esperienza di vita.
Da un lato l’opera d’arte qualifica come condizione di senso, bellezza e verità il qui e ora di un evento in cui la relazione ordinaria del soggetto con l’oggetto, dell’io con il mondo, viene sottoposta a una cesura, a una discontinuità, per essere riconfigurata come incontro, come occasione di rivelazione. Il soggetto viene «toccato» dal mondo, nell’urto di un’interruzione che destabilizza e mette in questione, se non in crisi, una relazione con le cose regolata dai criteri dello scopo e del dominio, dall’istanza di controllare il mondo in vista del fine di volta in volta da realizzare. Il mondo che «tocca» il soggetto esce dalla sua standardizzazione cognitiva e performativa di oggetto, per emergere come forza di interpellazione (come forza di intimation, direbbe Wordsworth) che chiede di essere ascoltata e interpretata, presentandosi come vettore non di scopo ma di senso, come «apertura» di uno spazio in cui la differenza tra esterno e interno viene meno e l’uomo si ritrova in unità con le cose. Nell’incontro che spezza la relazione di dominio, il mondo si sottrae alla sua riduzione (tecnica, sociale) a «cosa con cui fare qualcosa», per emergere come «presenza», come essere non da usare ma da conoscere e da capire, in un processo di ascolto e interpretazione in cui il soggetto coinvolto comprende anche sé stesso, «torna a sé stesso».
L’arte trasforma, dunque, la relazione con il mondo in un incontro rivelativo, in una dinamica di reciprocità evenemenziale (e non meramente funzionale) che è «disarmata e disarmante», perché sospende l’istanza umana di potenza, di dominio e utilizzazione, per «lasciar essere» il mondo nella sua essenza rivelativa, innescando la manifestazione creativa dell’unità della totalità dell’esistenza nella particolarità del singolo fenomeno e nell’unità di mondo ed essere umano. È precisamente quando l’uomo rinuncia a voler utilizzare la cosa, il processo, abbracciando la prospettiva contemplativa dell’ascolto e della visione, affidandosi al silenzio, lasciando esser l’altro come altro che ha da dire qualcosa semplicemente perché è e in questa sua singolarità è manifestazione del tutto, che l’uomo incontra la cosa, il mondo, l’altro da sé, e fa esperienza della bellezza in quanto splendore della verità: manifestazione dell’essere come grazia.
La dinamica di questo processo di mutua rivelazione (del sé e dell’altro da sé) nell’incontro è intrinsecamente pacifica e riconciliatrice: l’arte è da questo punto di vista fonte di pace e bellezza, facendo del qui e ora dell’incontro nell’opera una condizione «gioiosa» di senso che al pari della liturgia (cui è strettamente legata) manifesta all’uomo la bontà dell’essere. Ma a questo movimento di sistole del riconoscimento e dell’espressione del qui e ora dell’incontro come fonte di senso si coniuga la diastole dell’irriducibile dissidio con il mondo, l’istanza del suo trascendimento in un oltre dal desiderio di colmare le mancanze, di sanare le ferite, di raddrizzare le storture della condizione umana. Irriducibile, nell’uomo, è la sete di un di più cui l’arte, al pari della fede, dà la forma di promessa, di possibilità presentita, formulata, sperata.






