«Oggi, nell’arte, le cose accadono in Thailandia e in Cina, in India e in Russia, in Arabia Saudita e in Brasile. L’arte ha, nelle sue forme di maggiore originalità, un radicamento locale e una proiezione globale. L’Italia ha espresso movimenti che le hanno assegnato un posto centrale in alcuni snodi del Novecento. Abbiamo generato, negli anni Dieci e negli anni Venti, il Futurismo. Negli anni Sessanta l’Arte povera, con il contribuito di Germano Celant, ha avuto un grande senso. E, negli anni Settanta e Ottanta, ha espresso una sua forza la Transavanguardia che, anche grazie ad Achille Bonito Oliva, ha trovato una collocazione internazionale. L’arte di adesso ha una dimensione meno corale, più delimitata dall’esperienza del singolo artista. Esistono le singole personalità. Se uno pensa alla genialità concettuale, estetica e comunicativa di Maurizio Cattelan, capisce quanto l’arte possa avere un impatto violento e quasi predittivo sulla realtà. Anche Banksy, che mi piace meno di Cattelan, ha una energia insieme silenziosa e fragorosa, che nel suo caso viene amplificata dal mistero e dalla capacità di sfruttare al massimo i meccanismi di funzionamento del mercato dell’arte. Ma entrambi sono, appunto, a loro modo dei solitari. Non ci sono più i movimenti. Oggi si assiste a uno sbilanciamento a favore della pittura, con una crescente importanza delle performance, con una posizione meno centrale di una volta ma ancora buona di installazioni e sculture e, invece, con l’eclisse della fotografia, che è stata ridotta a poca cosa dalla tecnologia del telefonino e dall’enorme inflazione delle immagini autoprodotte».
Patrizia Sandretto Re Rebaudengo appartiene all’élite internazionale che ha contribuito, dagli anni Novanta, a rendere popolare l’arte, a determinarne il gusto, a contribuire ai percorsi di crescita e di successo di un artista (e di uno stile) piuttosto che di un altro, con una attitudine democratica e non demagogica nell’idea che i musei e le collezioni debbano essere città aperte, perché se la verità rende liberi, la bellezza trasforma e migliora sia il cuore che la mente.
Siamo all’Harry’s Bar di Venezia. La famiglia Cipriani coccola Patrizia: la figlia di Arrigo, Carmela, ci ha assegnato, al piano terra, il tavolo d’angolo in fondo a destra, il migliore per comodità e per prestigio, per dire la sua collocazione nella gerarchia di finanzieri e industriali, scrittori e attori – italiani e soprattutto stranieri – che qui passano e che vengono disposti con maestria nel calcolo dell’influenza, nella severità di occhio e nell’arbitraria simpatia umana dalla famiglia Cipriani.
Venezia oggi è meravigliosa. La giornata di marzo annuncia la primavera. Fa freddo, il vento però non è gelido, la luce è perfetta. La sala da pranzo dell’Harry’s Bar è accogliente, non calda, quasi tiepida. «Il signor Arrigo è andato via dieci minuti fa. Mi spiace. Signora, lo ha perso per poco», dice il cameriere a Patrizia. Patrizia, mentre prende il menù, propone un Bellini, un grande classico dell’Harry’s Bar. I camerieri inondano la tavola di piccoli antipasti, fra cui degli spettacolari toast fritti, del pan brioche super morbido e delle acciughe, e mi chiedo se siano queste «le dolcezze dell’Harry’s Bar» cantate in Hemingway da Paolo Conte, insieme alle «tenerezze di Zanzibar», alle «illusioni di Timbuktu» e alle «gambe lunghe di Babalù».
In tavola arriva il carpaccio, che è un punto fermo di Cipriani. Di vino prendiamo un Gavi, che però stenta a decollare, forse sarebbe stato meglio ascoltare il suggerimento del cameriere che proponeva una Ribolla gialla. Patrizia ha iniziato a collezionare opere nel 1992. Lo ha fatto, da subito, cercando i fenomeni (e le persone) destinati a crescere. Tutti andavano a New York. E lei sceglieva la scena di Los Angeles, dove diventava amica e committente di Doug Aitken, di Catherine Opie e di Charles Ray, quando erano ancora sconosciuti. Poi, nel 1995, ha deciso di creare la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (assommando il suo cognome a quello del marito Agostino). La Fondazione ha una sede a Torino e una a Guarene nel Palazzo Re Rebaudengo, ha un parco a Guarene con tredici opere di altrettanti artisti, ha organizzato trecento mostre, ha commissionato centocinquanta opere. Qui a Venezia ha appena acquistato una isola, l’Isola di San Giacomo. Fra gli artisti che, anche attraverso il dialogo e il lavoro compiuto insieme, hanno realizzato i percorsi più lunghi e affascinanti, ci sono appunto Aitken, Adrian Villar Rojas, Mark Manders e Paulina Olowska: personalità che hanno contribuito non poco a cambiare l’arte contemporanea.
I Sandretto arrivano dal nulla fatto di lavoro, di fabbrica e di fortuna. I Re Rebaudengo appartengono alla nobiltà del Regno di Sardegna e non sono naufragati nella decadenza, ma sono diventati industriali. Ricorda Patrizia: «Mio padre Dino si diplomò perito meccanico all’istituto Avogadro di Torino. Lui e suo fratello Tommaso, nel 1946, fondarono una azienda di presse per lo stampaggio che, al suo apice, avrebbe avuto millecinquecento dipendenti, con impianti a Lorette in Alta Savoia, a Torino e a Pont Canavese. Io sono nata nel 1959. In quello stesso anno, sorge la Galleria di Arte Moderna di Torino. Molte opere ospitate nella prima rassegna appartenevano alle grandi famiglie del Nord Italia, che avevano il loro riferimento nel mercato dell’arte di Torino. Nello stesso anno, a New York apriva il Guggenheim. Anche mio marito Agostino appartiene a una famiglia di industriali. Un suo avo, Eugenio, fu nel 1899 fra i soci fondatori della Fiat insieme al senatore Giovanni Agnelli. A entrambi è sembrato utile che la passione per l’arte diventasse una forma di impegno civile, quasi politico nel senso della Grecia classica. Da collezionista, mi sono sempre rifiutata di vendere le opere che amavo e che acquistavo. Non per un fatto etico, ci mancherebbe. Ma per un impulso naturale che appartiene a tanti collezionisti. Non ho mai considerato la mia collezione come una fonte di profitto, ma ho sempre desiderato condividerla con il pubblico».
In tavola viene servito il piatto principale. Lei sceglie gamberi al curry con riso pilaf. Io vado sui tagliolini alla Cipriani, gratinati e con il prosciutto, il piatto preferito da Maria Callas, nella fase felice del suo amore con l’armatore greco Aristotele Onassis.
Patrizia è partita da Torino, dove ha costruito un modello, ma non si è fatta ingurgitare negli anni Novanta da una città complessa e potente, sazia e a suo modo soddisfacente per chi sceglieva di rimanere nella corte sabauda e metalmeccanica della famiglia Agnelli e della Fiat, che allora era ancora viva e ben presente con Gianni e Umberto Agnelli, donna Marella e Allegra Caracciolo, Franzo Grande Stevens e Pierluigi Gabetti: «Mi è capitato di fissare date, per nostre iniziative, che poi erano le stesse anche dalle istituzioni culturali della famiglia Agnelli. È successo nel 2002: il 20 settembre abbiamo inaugurato la nostra sede di Torino e la Pinacoteca Agnelli ha aperto lo stesso giorno. La coincidenza si faceva notare. Ho sempre pensato che fosse una opportunità, perché chi era in città poteva andare in entrambi i posti», dice con il rispetto istituzionale che i torinesi hanno per la allora casa regnante, per quanto già colpita dai lutti famigliari, dai dissesti finanziari e dalla perdita dell’egemonia sul Paese.
Ora Patrizia si muove fra gli Stati Uniti e l’Europa, la Spagna e l’Italia, dove a Venezia ha appunto acquistato con il marito Agostino l’Isola di San Giacomo, una operazione effettuata dalla dismissione del patrimonio immobiliare di Cassa Depositi e Prestiti e finanziata con il patrimonio della famiglia che, come tutto il resto della sua attività, diventa un public good, un bene pubblico, per avvicinare – dal 2026, se i lavori rispetteranno i tempi – i più giovani all’arte e per dare il sigillo di una nuova forma di mecenatismo al lavoro degli artisti, fra luoghi di esposizione, di incontri e di ospitalità.
Il tavolo viene invaso dal gelato di Cipriani, che ha sempre porzioni pantagrueliche. E, poi, bevendo il caffè arrivano anche cioccolata e pasticcini, tiramisù e torta bavarese. L’Isola di San Giacomo, dove siamo stati questa mattina prima di arrivare all’Harry’s Bar, è un luogo fuori da ogni misura della realtà: si trova nel pieno della laguna, era un vecchio arsenale dei tempi napoleonici, sembra un luogo partorito dalla fantasia di Italo Calvino o, meglio, di Raffaele La Capria, perché qui il Mediterraneo non è solo ventoso e salmastro, ma è anche solare ed enigmatico e conferisce a Venezia la funzione di porta verso l’Occidente, verso l’Oriente e verso l’Africa. Racconta Sandretto: «Una parte dell’isola sarà riservata a nostra residenza famigliare. Un’altra parte verrà destinata a un doppio spazio per le esposizioni, a cui potranno accedere tutti con una fermata di vaporetto». E, mentre pensiamo insieme a San Giacomo, mi vengono in mente i versi di Alla vita di Mario Luzi, che ben calzano sul profilo di Venezia, dell’arte e dell’isola: «Amici dalla barca si vede il mondo e in lui una verità che procede intrepida, un sospiro profondo dalle foci alle sorgenti».