Velasco
BOLOGNA — Julio Velasco ha già regalato la tuta di Parigi: i ricordi gli stanno sempre un po’ stretti. Ha cominciato la prossima vita combattendo contro una squadra formidabile, le formiche di campagna che non vorrebbero lasciare la sua casa. In attesa del Mondiale di fine agosto in Thailandia.
Quando si è reso conto che aveva vinto l’oro olimpico?
«In quel momento, a Parigi, c’è stata solo emozione. Poi, in questi mesi, ho pensato “ci sono riuscito”.
L’oro non era una mancanza ma vincerlo mi ha dato un senso di pienezza».
Nel discorso di fine anno il presidente Mattarella ha chiesto di ascoltare il disagio dei giovani, tema a lei caro. Sono molto cambiati?
«No, assolutamente. Ma è cambiato il mondo, è cambiata la velocità di cambiamento del mondo».
Colpa del web? Colpa dei social?
«Faccio parte della generazione di rottura, quella degli anni Sessanta, quando contestavamo il sistema.
Anche allora gli adulti criticavano tante cose che, secondo loro, ci avrebbero reso peggiori. Ora non so se il web aumenta la stupidità, ma so che aumenta la possibilità di accedere a certe cose, di imparare a farle, di esprimerti se vuoi cantare o suonare. Trovo ingeneroso dire che i giovani hanno poca voglia di fare: il problema è che fanno troppe cose, il corso di inglese, l’allenamento sportivo, lo studio, e hanno poco tempo davvero libero, per la noia e l’ozio creativo. Ma soprattutto penso che ad essere cambiati siano i genitori».
Perché?
«Non so, forse per il senso di colpa di non poter stare tanto a casa. Oggi i genitori hanno paura della frustrazione dei figli, pensano che i traumi danneggino la loro anima per sempre. La storia dimostra che non è così: altrimenti dopo la guerra, con una generazione cresciuta tra bombe e miseria, cosa sarebbe dovuto succedere?».
I genitori vogliono evitare che i figli soffrano.
«E per questo intervengono troppo. Parlano con l’allenatore, parlano con l’insegnante. Per aiutarli, ovviamente, ma non capiscono che ciò che ti rende forte è un buon sistema immunitario. Percostruirlo, però, devi anche ammalarti e superare il virus. E lo devi superare tu, da solo. C’è un paradigma sottinteso: se non intervieni non ti prendi abbastanza cura. Ma non è così: mia madre quando ci diceva che dovevamo arrangiarci lo usava come metodo.
Perché quando la mano del genitore ti molla come fai? Poi c’è un altro punto».
Quale?
«A volte i genitori usano i figli come specchio narcisistico. Per avere conferme su di loro. I figli ti devono piacere perché sono tuoi, non perché sono i migliori. Non c’è un ranking: tuo figlio non vale solo se arriva in alto, altrimenti è un fallito. Quando un genitore dice “mio figlio è bravo ma non lo capiscono”, sta tranquillizzando se stesso. “Non è colpa sua” vuol dire “non è colpa mia”».
Magari in questo lo sport ha qualche responsabilità.
«Se viene trasformato in una lente per guardare alla vita, non fa bene.
La vita non è un campionato. Se la musica o l’arte diventano una classifica, come nei talent, può anche essere divertente, ma applicando lo schema in modo rigido diventa un po’ mostruoso.
Van Gogh sarebbe retrocesso e solo da morto avrebbe vinto la Champions».
Da genitore come si è comportato?
«Una volta mia figlia mi ha detto: so che non vuoi sentire queste cose, ma quel professore ce l’ha con me.
Io le ho risposto: ti credo, ma si tratta proprio di questo. Tu devi riuscire a essere promossa da chi ce l’ha con te, devi imparare a gestirlo. Lei voleva solo essere capita e infatti l’ha risolta. Spesso quando allenavo le giovanili incontravo i padri e le madri perché va anche detto che non c’è una università per genitori. Si riflette poco su che tipo di genitori siamo. Più che parlare del disagio dei figli, parlerei del disagio dei genitori».
Che non si affronta?
«Più che altro sembra non esserci spazio per questo. L’opinione pubblica vive in modo frenetico, c’è sempre un fatto che va commentato, un’altra urgenza che merita attenzione. Non c’è un luogo o un tempo di riflessione sull’aiuto che serve. I giovani nella maggior parte dei casi sannorisolvere le cose, hanno meno paura di cambiare perché non hanno molto da perdere, c’è chi attraversa momenti difficili, ma spesso questi momenti fanno parte dei problemi comuni a tanti ragazzi. Non tutto è patologico. Poi se qualcuno ti bullizza il figlio, l’istinto sarebbe menarlo, ma non è la soluzione».
I giocatori maschi sono diventati più insicuri?
«Anche prima si sentivano insicuri, solo che i maschi, una volta, non potevano dirlo. Nelle vigilie delle grandi sfide, ai giocatori migliori sudano le mani e lo stomaco si blocca. Il coraggio non ce l’ha chi non sente la paura, quella è incoscienza, ma chi riesce a gestirla. Oggi però abbiamo una scala di misurazione delle insicurezze accuratissima, stiamo attenti a ogni piccolo segnale. Che va bene, ma bisogna dare il giusto peso alle cose».
Perché è tornato ad allenare a più di 70 anni?
«Perché sono un allenatore e perché volevo capire le differenze nella gestione delle donne, volevo imparare a usare paradigmi diversi. Con i maschi usi “guerrieri”, “occhi della tigre”, con le ragazze non è così. L’aggressività e la carica hanno strade diverse. Ho chiesto anche alle giocatrici e ho parlato loro del coraggio delle donne argentine nella lotta per i desaparecidos».
Cercava un’altra occasione dopo l’Olimpiade di Atlanta del
1996 e quell’argento con la nazionale maschile?
«Non era tanto per il 1996, quanto per il 1997, quando avevo iniziato con le donne. Volevo mettermi alla prova con loro. E rispetto alla generazione di allora, le ho trovate diverse, questo sì. Le donne oggi sono protagoniste di una rivoluzione in corso. Ai nostri tempi, nonostante l’inizio di certe consapevolezze, restavi sempre “la compagna di”. Oggi le ragazze rifiutano i ruoli secondari e vogliono quelli da protagoniste».
Perché la infastidiscono le storie sul gruppo unito?
«Perché si confondono le cose.
Anche chi perde può avere un gruppo unito. Aiutare una compagna non è un gesto di solidarietà o di affetto, ma fa parte del gioco. Tu devi aiutarla perché è il tuo compito, se non lo fai stai giocando male, perché la copertura fa parte del metodo di gioco. Non abbiamo parlato dei problemi che c’erano stati tra le giocatrici negli anni precedenti, ma, per esempio, abbiamo ruotato sempre le camere, ogni settimana si cambiavano le compagne di stanza e, per quel che so, ci sono stati chiarimenti tra loro. Mariguardava loro. Certi stereotipi sono alimentati anche da noi sportivi. Da noi allenatori. Lo facciamo ogni volta che esortiamo e non diamo indicazioni concrete.
Diciamo “giochiamo di squadra” o “dobbiamo sbagliare meno”. La verità è che tu allenatore non sai bene cosa dire e quindi esorti».
L’oro olimpico di Parigi è stata la gioia più grande?
«Nel 1989 per l’Europeo e nel 1990 per il Mondiale con la nazionale maschile, tutto è stato più forte. A Parigi mi ha impressionato il modo in cui abbiamo vinto, quasi senza perdere un set. Ma appunto ilrischio di questi bilanci è quello di trasmettere che la chiave è stata la gestione del gruppo, invece le chiavi sono state il cambiamento tecnico e quello metodologico».
Quali?
«Abbiamo cambiato le cose da allenare: per esempio la battuta e la ricezione, dando loro importanza. E il metodo, perché rispetto alla ricezione l’abitudine è che a battere siano gli allenatori, ma così le giocatrici si esercitano poco.
Abbiamo allenato la difesa con attacchi fatti da loro, non da un tavolo con uno che ti schiaccia palloni addosso. Ecco i tavoli li abbiamo eliminati, usando le situazioni di gioco per chi attacca e chi difende».
Infatti Paola Egonu l’ha ringraziata per le rullate, che è un tipo di difesa. Quante domande ha avuto su di lei?
«Non tante in verità. Ed è merito suo perché sta imparando a gestire una cosa complicatissima, come il ruolo di star. Ne avevamo parlato all’inizio, anche io avevo avuto difficoltà quando sono diventato “un personaggio”».
Una volta ha detto: mi cercano perché sono un ottimista.
«Un po’ sono così di carattere, un po’ hanno inciso le esperienze che aiutano a relativizzare, dall’Argentina al tempo della dittatura fino alla malattia di persone che ami. L’ottimismo non è “andrà tutto bene” quanto piuttosto“non va bene, ma non è così grave”.
Ci sono persone che, a prescindere dal problema, si lamentano in continuazione. Bisogna godersi le cose. Anche quelle piccole, come dice Wenders: strofinarsi le mani quando fa freddo ti dà una bella sensazione calda».
Come si fa a convincere che bisogna cambiare?
«Il cambiamento oggi fa paura perché è troppo, ogni mese c’è un software nuovo, impari e devi già aggiornarti. Chi gestisce le persone dovrebbe pensare a questo, il rischio sennò è di mettere troppo stress. Per cambiare una squadra devi proporre poche cose, sapendo che il cambiamento a volte è bello e a volte no, perché è complicato fare una cosa nuova. Riconoscere le difficoltà è la prima cosa, le persone così si sentono capite, la seconda è trasmettere fiducia, far sentire che ce la si può fare, non giudicando al primo errore o trattando gli altri da poveri incapaci. I giocatori e le giocatrici non sono noi e sono diversi tra loro».
L’errore è più complicato da gestire per le donne?
«Ne abbiamo discusso molto con la squadra, le donne soffrono tanto l’errore, perché a loro storicamente non venivano perdonati. Non ci si può concentrare solo sull’errore, perché certe volte le altre fanno punto perché sono brave, non sempre c’è una colpa. Così dire “mia” quando perdi una palla per mostrare a tutti che sei la responsabile del danno, prolunga il tempo dedicato all’errore. Ti mortifichi, ma il protagonista è sempre l’errore».
Cosa vorrebbe dal 2025?
«Vorrei vincere il Mondiale, sarebbe una roba incredibile. Ma sarà difficile, l’ho già vissuto dopo il 1990. Non è colpa di nessuno, però dopo che hai vinto è complicato riuscirci subito di nuovo. Basta pensare alla storia: dalla Polonia all’Olanda ci sono nazionali che dopo un trionfo sono sparite per anni».
Quindi?
«Bisogna pensare che abbiamo perso, fissando insieme una data, fissandola tra pochissimo, come punto da cui tirare una riga. Da lì non si festeggia più, non si ritirano più premi, non se ne parla più.
Nemmeno nelle interviste».