Giuseppe Laterza
Al Salone del libro di Torino, diventato momentaneamente Saloon per la baruffa attorno alla ministra Roccella, ma anche per le polemiche prima sulla scelta del successore del direttore Nicola Lagioia e dopo sullo spazio da dedicare alla cultura di destra, lo psicoanalista Massimo Recalcati ha squarciato un velo di conformismo: «In fondo al cuore di alcuni democratici c’è il fascismo». Come non affrontare il tema allora con uno degli editori più illustri al Salone, Giuseppe Laterza, 66 anni, che ha in catalogo sempiterni come l’Intervista sul fascismo a Renzo De Felice o l’Intervista sull’intellettuale a Eugenio Garin.
Che ne pensa dell’uscita di Recalcati?
«Sono più d’accordo con lo storico Emilio Gentile, di cui ho pubblicato molti libri, secondo cui il fascismo è una categoria storica da usare con parsimonia. Prima ci sono altre parole da usare. Un governo può essere autoritario o una persona intollerante, per esempio. Il vocabolario ci offre tante espressioni che non hanno le implicazioni del fascismo, un fenomeno assai complesso che per Croce fu una parentesi e per Gobetti l’autobiografia della nazione».
C’è stata una certa timidezza della sinistra, con l’eccezione del sindaco di Torino Lo Russo, nell’ammettere che la ministra Roccella dovesse essere messa nella condizione di parlare al Salone del libro?
«Non da parte mia, anzi trovo sia stato un grave errore dei contestatori passare dalla parte di quell’intolleranza che intendevano criticare. Se volevano sostenere che Roccella non abbia la liberalità che loro ritengono di avere verso i diritti civili sono apparsi intolleranti. Non ci sono scusanti. Credo, come il direttore del Salone Lagioia a cui va la mia stima, che sia legittimo interrompere una manifestazione per fare una protesta. Se però, come successo, la ministra si rende disponibile ad ascoltare bisogna avere la maturità di iniziare un dialogo».
Perché il dissenso non si è trasformato in confronto?
«Questo Paese non accetta un dibattito pubblico civile. Le persone vanno educate al rispetto. Lo devono imparare i manifestanti, come i politici. Ricordo l’esempio di Sandro Pertini che si avvicinò a chi lo aveva fischiato».
Lagioia a sua volta è stato accusato di una mediazione insufficiente, che ne pensa?
«Nessuno può prevenire il dissenso. Questa vicenda ricorda un po’ il caso di Carlo Rovelli. Non si possono controllare le persone e quel che dicono. Lagioia ha ragione quando parla di retorica paternalista. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità ed essere giudicato per come agisce».
Fatto sta che alla fine la ministra ha dovuto andarsene.
«Solo nei regimi autoritari interviene la polizia, ma non mi pare una soluzione auspicabile. Non si può essere trascinare fuori la gente e non si gestisce così un Salone. E il giorno dopo il messaggio della ministra è arrivato di più così. Tanti anni fa a un concerto di Ravi Shankar entrarono dei contestatori del biglietto a pagamento, al che il compositore iniziò a battere le mani e il pubblico lo seguì finché i manifestanti non dovettero uscire. Un metodo molto efficace».
Se al posto di Roccella ci fosse stata Meloni avrebbe gestito meglio la platea, come per esempio accadde alla Cgil?
«Può darsi, ricordo la sua reazione dialogante verso l’attivista Lgbt che salì sul palco a Cagliari. Tutti devono mettersi nello spirito che una manifestazione ha dei rischi da gestire con attenzione reciproca».
Come vede la successione Lagioia-Benini?
«Mi pare bene, non conosco lei come lui, barese come me, ma mi pare consapevole del difficile compito e adatta per il suo equilibrio a questa fase difficile in cui si confrontano punti di vista culturali diversi etichettabili di destra o sinistra».
La destra chiede pluralismo. È sincera o vuole altro?
«Da editore non posso che dare fiducia alle parole, poi misurerò dalle nomine, dalla qualità e dalle azioni. Se poi dietro ci fosse solo la lottizzazione, non sarebbe certo una novità perché anche certa sinistra ha agito così».
Vede un rischio autoritario come Saviano?
«Certo, anche se si sarebbe potuto dire la stessa cosa quando Massimo D’Alema divenne premier, perché non proveniva da una cultura liberale».
Perché dice certo?
«Le culture originarie di questo Paese sono spesso illiberali, il fascismo che per noi ha pesato molto di più, ma anche il comunismo pur trasformato da Togliatti e Berlinguer. Non a caso il Pci contribuì alla Costituzione. La cartina di tornasole della destra attuale sarà proprio quanto saprà essere costituzionale. Sul presidenzialismo, per esempio, il punto non è gridare all’autoritarismo, ma se come dubitano Zagrebelsky e Canfora sia la forma più adatta a una società divisa come quella italiana. Credo però che abbiamo tutto l’interesse che si crei una destra popolare e liberale, anche perché una parte significativa del Paese si sente in qualche modo di destra».
Meloni è la persona che può riuscire in questo traghettamento?
«Spero di sì, ho letto il suo libro e fa una serie di aperture in tal senso, pur da sovranista e anti-global. Mi sembra pronta a confrontarsi con la realtà, come dimostrano gli approcci all’Ue e all’America».
Perché la destra si affanna così tanto sulla cultura?
«Sente di non aver avuto spazio sufficiente, ora vedremo come lo riempirà. Non mi scandalizzerei se avvenisse all’interno del sistema costituzionale e democratico. E preferisco questo passaggio storico rispetto al berlusconismo, che metteva in discussione il quadro liberale col conflitto d’interesse. La destra al governo va criticata nel merito, poi se ci saranno segni di involuzione autoritaria li affronteremo e li combatteremo. Non siamo la Colombia, in Italia esistono tanti contrappesi».