Francesca Mannocchi
Trecento, tremila, tredicimila, trentamila morti. Cento persone affamate uccise dai colpi israeliani mentre lottavano per un sacco di farina o morte sotto la calca di chi, nella ferocia della battaglia quotidiana per sopravvivere, cammina sopra gli altri per cercare di sfamarsi, di sfamare, e resta schiacciato dai camion e dalla folla.
C’è un punto, nella sensibilità di chi guarda le guerre dall’agio della lontananza, in cui i numeri diventano meri segni grafici. Nessuno di noi, chiudendo gli occhi, può figurare trecento morti. Figuriamoci trentamila. Da cinque giorni, però, abbiamo nella testa l’immagine di un drone che dal cielo mostra dei punti neri che come formiche, disperate, velocissime, si avvicinano a un mezzo da Nord, da Sud, da Est, da Ovest.
Quei punti neri sono esseri umani. Quell’immagine è la fame. E quella fame è il prodotto degli uomini, non del caso.
I fatti sono noti.
Alle 4.30 di giovedì scorso un convoglio di una ventina di camion, inviato tra gli altri da Qatar, Arabia Saudita ed Emirati, attraversa una postazione dell’esercito israeliano e si dirige verso Haroun Al Rasheed Street, nella parte occidentale di Gaza City. Lì, nel Nord della Striscia, dove sono bloccate ancora 300mila persone, i civili aspettavano la distribuzione. Secondo il Ministero della Sanità palestinese a Gaza, almeno 112 persone sono state uccise e 760 ferite.
Per le autorità palestinesi le vittime sono state uccise a colpi di arma da fuoco in un massacro, mentre per l’esercito israeliano la maggior parte delle vittime è stata causata da una fuga precipitosa e dai camion che si allontanavano velocemente travolgendo le persone in attesa di cibo.
Due giorni fa Bbc Verify ha pubblicato una ricostruzione delle versioni degli eventi, con l’ausilio di alcuni testimoni oculari e dell’analisi dei video visionati.
Uno dei filmati – datato 23.30 del 28 febbraio – mostra alcune centinaia di persone intorno ai fuochi in attesa dell’arrivo degli aiuti. In un altro si sentono raffiche di spari, persone correre per nascondersi dietro i camion e tracce nel cielo dei colpi d’arma da fuoco.
Il dottor Mohammed Salha, direttore ad interim dell’ospedale Al-Awda di Gaza City, ha detto ad Associated Press che dei 176 feriti portati nella struttura, 142 avevano ferite da arma da fuoco e gli altri 34 mostravano ferite dovute a una fuga precipitosa. Un altro medico dell’ospedale Shifa, sempre a Gaza City, ha detto che la maggior parte delle persone curate riportavano ferite da arma da fuoco.
Se i fatti sono noti, le spiegazioni ancora lacunose e le richieste di indagini unanimi. Le ricostruzioni israeliane sulla strage sono state inizialmente contraddittorie. Secondo il portavoce dell’esercito Daniel Hagari, il convoglio è stato circondato dalla folla intorno alla rotatoria di Nabulsi, l’Idf ha aperto il fuoco per legittima difesa “quando ha incontrato il pericolo e che, contrariamente alle accuse, decine di residenti di Gaza sono stati uccisi a causa del sovraffollamento e sfortunatamente i camion palestinesi li hanno investiti durante un tentativo di fuga”.
Precedentemente, però, un altro portavoce militare, Peter Lerner, aveva fornito una versione diversa, sostenendo che ad essere responsabile fossero le truppe di un posto di blocco nel Nord di Gaza. Durante una conferenza stampa, Lerner ha detto che «proprio al punto di passaggio le persone si sono avvicinate alle forze rappresentando una minaccia e quindi le forze hanno aperto il fuoco».
Alla richiesta di chiarimento tra le due versioni, l’esercito ha sostenuto che la versione di Hagari fosse quella esatta.
I numeri della fame
Quando, intervistato da Channel 4, il portavoce Peter Lerner ha detto «la folla ha assaltato il convoglio», la conduttrice ha risposto: «quando dice folla, intende persone che muoiono di fame e che sono state private del cibo perché non avete fatto entrare gli aiuti?». In questa domanda giace la realtà di Gaza, dove già prima della guerra un milione di persone viveva in condizione di insicurezza alimentare. Gaza era già un posto che viveva di aiuti umanitari e oggi, semplicemente, quegli aiuti non ci sono. Interrotti gli aiuti delle agenzie umanitarie per ragioni di sicurezza, bloccati i convogli ai valichi terresti. Gli esperti delle Nazioni Unite dicono da settimane che non hanno mai visto una tale quantità di civili soffrire la fame «così rapidamente e in modo così totale».
Alla fine di febbraio, secondo i dati forniti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite da Ramesh Rajasingham, vice capo dell’agenzia umanitaria Ocha, «almeno 576.000 persone a Gaza sono a un passo dalla carestia, equivale a un quarto della popolazione», e un bambino su sei sotto i due anni nel Nord di Gaza soffre di malnutrizione acuta e deperimento.
Gaza è un luogo in cui quasi tutti i sopravvissuti devono limitare i pasti, scegliere chi mangi prima, i bambini, gli anziani e i malati, le donne. E chi si sacrifichi non mangiando. Non ci sono forni per fare il pane, non c’è abbastanza carburante per far funzionare gli ospedali e gli impianti di desalinizzazione, oltre un quarto dei pozzi d’acqua è andato distrutto, così come 340 ettari di serre. Non ci sono quasi più animali, più niente da macellare. Secondo la Fao il 65% dei vitelli e il 70% dei bovini da carne sono morti.
Gaza è diventata un luogo in cui i sopravvissuti hanno a disposizione meno di un litro di acqua potabile al giorno. Che significa esporsi a malattie, rischio di infezioni, che a sua volta significa epidemie. La domanda, di fronte a questa catastrofe umanitaria, è quale sarà la sorte di chi oggi ancora sopravvive.
Ieri, secondo una nota del Ministero della Sanità di Gaza, 15 bambini sono morti per malnutrizione e disidratazione. A fine febbraio i ricercatori del Centro per la Salute Umanitaria della Johns Hopkins University e della London School of Hygiene and Tropical Medicine hanno pubblicato un rapporto per provare a prevedere quante persone moriranno a Gaza nei prossimi sei mesi. Intervistati dal New Yorker sulla stima delle morti in eccesso, cioè quelle causate indirettamente da malattie e mancanza di accesso alle cure mediche, i ricercatori hanno ipotizzato tre scenari: se la guerra continuasse così, con bombardamenti su aree popolate e mancato accesso degli aiuti, fino ad agosto, morirebbero altre 66 mila persone. Se la guerra si intensificasse il numero potrebbe raggiungere gli 85 mila. Se il cessate il fuoco iniziasse immediatamente (scenario più distante dalla realtà) morirebbero comunque tra le 6 mila e le 11 mila in più rispetto a quanto sarebbe avvenuto se non ci fosse stata la guerra.
Gli aiuti dal cielo
Il giorno dopo la strage degli affamati, l’aeronautica americana ha iniziato i lanci di aiuti umanitari su Gaza. L’avevano già fatto prima Giordania, Francia, Egitto, Emirati. Tre C-130 hanno sganciato 66 pallet, il corrispettivo di 38 mila pasti. Per dirla con le parole di Emile Hokayem, direttore per la sicurezza regionale presso l’Istituto internazionale per gli studi strategici, è stato «un segnale di virtù e un’ammissione di impotenza da parte degli Stati Uniti».
Per le agenzie umanitarie lanciare aiuti dal cielo è costoso, inefficiente e totalmente inadeguato per sfamare due milioni di persone senza un posto dove andare: non si può sapere chi riceverà gli aiuti e chi ne sarà escluso. In più è rischioso, perché gli aiuti aerei arrivano senza preavviso sulle teste di centinaia di migliaia di persone che aspettano di sfamarsi e sanno che non ci sarà cibo per tutti. Sabato i container sono scesi dal cielo uno ogni 30-60 secondi, ognuno attaccato a un paracadute. Hanno raggiunto le coste di Gaza, dove ci sono meno edifici, una visuale migliore, e quindi maggiore possibilità per i civili di vederli arrivare. Dentro c’era cibo, medicine, pannolini, kit per l’igiene femminile. I video di quei momenti mostrano i civili guardare verso l’alto e poi correre sulla spiaggia, accalcandosi gli uni sugli altri per avere di che sfamarsi. Come i punti neri ripresi dal drone, venerdì.
L’ennesima immagine di una popolazione imprigionata e affamata, che sopravvive mangiando semi e cereali per il bestiame. L’immagine di una carestia per le Nazioni Unite «quasi inevitabile» e di un negoziato che appare sempre più lontano.