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Appena 3,4 miliardi su 160 di Superbonus sono andati all’edilizia pubblica. L’Italia ha avuto l’occasione per offrire una prima casa ai poveri, ma ha rifatto la seconda casa ai ricchi. Dossier esclusivo
Uno degli argomenti invocati a difesa del Superbonus è che, grazie alla più che completa copertura dei costi (110 per cento!) e alla cedibilità del credito, ha reso le ristrutturazioni accessibili anche agli incapienti. L’argomento è stato usato più che altro come argomento retorico, perché nessuno si è chiesto quante risorse in realtà sono state spese per ristrutturare le case popolari. La risposta è: circa il 2 per cento della spesa da Superbonus (l’1,5 per cento considerando tutti i bonus edilizi).
Per questo abbiamo chiesto dei dati specifici a Federcasa, la federazione che rappresenta 84 enti e circa 770 mila alloggi di edilizia residenziale pubblica. Secondo il censimento di Federcasa, a metà 2023 risultavano avviati col Superbonus 685 cantieri per circa 1,1 miliardi di euro (1.142.348.020), mentre altri 710 interventi per un controvalore di 2,3 miliardi (2.284.479.337) erano in procinto di essere varati. Un terzo gruppo di 1.536 cantieri, per un ammontare di 2 miliardi (1.993.405.853,27) era nelle fasi iniziali del processo ma, come dice al Foglio il presidente di Federcasa Marco Buttieri, quasi nessuno è poi partito perché erano già emersi problemi sul mercato dei crediti, i tempi per i lavori erano troppo stretti e i rischi finanziari troppo elevati. “Nessuno di questi è andato avanti – dice Buttieri – anche se era tutto pronto, con quei chiari di luna nessuno ha preferito partire. Dei 2,3 miliardi di cantieri già approvati, un 80 per cento ha concluso i lavori. La spesa finale dovrebbe aggirarsi attorno ai 3 miliardi”.
Prendendo pure l’ipotesi più ampia possibile, si può stimare che le case
popolari hanno intercettato agevolazioni edilizie per non più di 3,4 miliardi, corrispondenti al 2,1 per cento della spesa per il Superbonus pari a 160 miliardi. La percentuale si riduce ulteriormente se si fa un confronto con il totale dei bonus edilizi, che nel triennio 2021-23 hanno tirato circa 220 miliardi. Questi dati vanno confrontati con i numeri del patrimonio dell’edili-zia residenziale pubblica: circa 900 mila alloggi. Assumendo una media di 25 alloggi per edificio, ristrutturare l’intero parco immobiliare pubblico sarebbe costato circa 88 miliardi. Grosso modo la metà del Superbonus.
Un altro dato rilevante riguarda le case popolari sfitte, che secondo l’osservatorio di Federcasa sono 60.217 (il 7,82 per cento). Questi alloggi sono vuoti perché inagibili o fatiscenti. Considerando, secondo le stime di Buttieri, una spesa media di 15-20 mila euro per appartamento sfitto, sarebbero bastati 11,2 miliardi per rendere abitabili 60 mila alloggi e dare un tetto a circa 180 mila persone (ipotizzando un nucleo medio di tre persone). Sarebbe, quindi, bastato 1 miliardo (sui 220 di bonus edilizi) per dare un tetto a una città grande quanto Reggio Calabria.
Questi dati contribuiscono a rafforzare il giudizio su quella che è stata non solo la misura bandiera del M5s di Giuseppe Conte, e poi sventolata dell’intero arco costituzionale, ma anche la più costosa politica industriale della storia d’Italia. Il Superbonus, introdotto come misura transitoria nel maggio 2020, è stato poi più volte prorogato, fino al blocco precipitoso del governo Meloni, travolto dagli extracosti (circa 150 miliardi oltre le stime). Le case popolari, che in teoria dovevano essere privilegiate dalla misura, sono state svantaggiate.
Il disegno dello strumento era stato cucito su misura per le unifamiliari e le unità indipendenti, che riuscivano prima a far partire i progetti. Sarebbe stato sufficiente riservare una quota agli Iacp. “Se di tutti quei soldi, invece di fare le ville unifamiliari, avessero dedicato 10 miliardi alle case popolari avremmo fatto il triplo e avremmo fatto meglio”, dice Buttieri al Foglio.
Allo stesso modo, il Superbonus non prevedeva alcuna misura utile a differenziare i beneficiari in funzione del reddito o patrimonio. Sicché, a dispetto delle dichiarazioni, è stata una misura fortemente regressiva: il più grande trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi della storia repubblicana.
Solo il 2 per cento del Superbonus alle case popolari. Un’occasione sprecata
Il problema ha anche un altro risvolto. Poiché gli anni del Superbonus sono stati segnati dalla crisi energetica, le agevolazioni edilizie hanno consentito a chi non ne aveva bisogno di rifarsi la casa e abbattere la bolletta, mentre i più bisognosi si sono trovati due volte fregati. La povertà energetica, infatti, è un problema crescente, anche alla luce dei possibili effetti inflazionistici del Green Deal (la cosiddetta “greenflation”). Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio italiano sulla povertà energetica, ben due milioni di famiglie (il 7,7 per cento) si trovano in tale condizione, definita come “difficoltà di acquistare un paniere minimo di beni e servizi energetici”. Nel 2022, la spesa energetica ha avuto un’inci-denza del 9,5 per cento sulla spesa annua delle famiglie appartenenti al 10 per cento più povero della popolazione, contro soltanto il 3,8 per cento per quelle più ricche. Un investimento focalizzato sulle case popolari sarebbe stato davvero una misura sociale: avrebbe migliorato la qualità delle abitazioni e anche il reddito disponibile dei nuclei più poveri. Non solo. Conseguentemente avrebbe pure migliorato i conti degli enti per l’edilizia pubblica, che non riescono a fare gli investimenti per la manutenzione o per nuovi progetti anche per le mancate entrate da morosità sui canoni, che ammontano a 1,2 miliardi di euro. “Se consideriamo un affitto medio di 92
euro e che, normalmente, le spese energetiche di una famiglia sono 120–150 euro al mese, un efficientamento energetico degli alloggi diminuirebbe la morosità – dice Buttieri – potremmo investire sul nostro patrimonio”.
Ma c’è di più. Tutte le liste d’attesa per una casa popolare arrivano, secondo l’osservatorio di Federcasa, a una richiesta di 250 mila case. Togliendo un 20 per cento che, statisticamente, è di famiglie che non hanno una stretta necessità, mancano circa 200 mila appartamenti per risolvere l’emergenza abitativa. Considerando un costo medio per un alloggio di 130 mila euro (1.600 euro al mq per 80 mq), per dare una casa popolare a tutte le famiglie bisognose sarebbero serviti 26 miliardi: il 12 per cento della spesa per i bonus edilizi. Detto in altri termini: rifare tutte le case popolari e aggiungere 200 mila alloggi per soddisfare la domanda sarebbe costato circa 45 miliardi in meno del solo Superbonus, che ha consentito di riqualificare appena il 4 per cento degli immobili residenziali.
In sintesi, non solo abbiamo speso una quantità di denaro pubblico senza precedenti per rifare le case di una minoranza, ma l’abbiamo fatto prevalentemente a vantaggio di chi meno ne aveva bisogno. Tagliando la spesa energetica dei più benestanti e lasciando che i più poveri sostenessero per intero l’impatto dei rincari. Né il contributo del Superbonus al raggiungimento dei target europei sull’efficienza energetica appare determinante, visto che le risorse si sono concentrate su una quota minima di case, ma con un’elevata intensità di sussidi.
Se negli anni 50-60 il governo De Gasperi con il ministro Amintore Fanfani fece il Piano Ina-casa per i poveri, con il Superbonus il governo Conte ha fatto il Piano Fanfani per i benestanti. Ora, presso il ministero dei Trasporti di Matteo Salvini, è stato istituito con tutti gli attori del settore un “tavolo” per un Piano casa per l’housing sociale: ma mancano i soldi, sono rimasti solo i debiti da pagare. L’Italia ha avuto l’occasione per fare una prima casa ai poveri, ma ha rifatto la seconda casa ai ricchi. Questo è stato il Superbonus. Come ha detto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: “Non si è mai vista una misura che costasse così tanto a beneficio di così pochi”.