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di Ernesto Galli della Loggia
La natura abbastanza deludente della cosiddetta Seconda Repubblica ha finito per generare una diffusa nostalgia per quella precedente, per la cosiddetta Prima Repubblica. Tale nostalgia almeno per un motivo — e cioè per la qualità della classe politica — è più che fondata, anzi fondatissima. Per livello culturale, infatti, per preparazione, per carattere, per capacità di discussione e di direzione, e vorrei aggiungere per la consapevolezza del significato e quindi della dignità del proprio ruolo, tra il prima e il dopo non c’è confronto possibile. Un noto personaggio delle cronache di questi giorni direbbe che siamo passati dai cavalieri della Tavola rotonda ai lanzichenecchi.
Ma la Prima Repubblica ha la responsabilità di aver trasmesso alla Seconda un’eredità avvelenata, il germe della faziosità: e in dosi massicce. Qualche giorno fa, proprio sulle colonne del Corriere Angelo Panebianco ne ha fornito un’analisi eccellente, sottolineando soprattutto come essa tragga alimento dalla polarizzazione politica a sfondo ideologico, un fenomeno che si sta diffondendo in tutti i sistemi politici occidentali.
È vero: in Italia però c’è qualcosa di più. Ed è il fatto che qui da noi la faziosità è un caposaldo della profonda diseducazione politica, nutrita di ignoranza delle cose e dei problemi, che caratterizza vastissime parti del Paese.
In Italia, ben prima di essere un aspetto dei partiti e del sistema politico, la faziosità è un tratto comune degli stessi italiani: un popolo perlopiù mite e intelligente che però quando si tratta della politica è portato assai spesso a «ragionare» in toni sommari, aggressivi, estremisti, senza curarsi di sapere o d’informarsi di nulla.
È il frutto della storia difficile della nostra democrazia. Una democrazia che per il suo primo mezzo secolo di vita ha vissuto senza possibilità di alcuna alternanza al potere a causa della presenza di due partiti d’opposizione (il Movimento sociale a destra e il Partito comunista a sinistra) i quali sia pure per ragioni assai diverse erano entrambi non legittimati a governare.
Prive dunque nella Prima Repubblica del naturale sbocco a cui in una democrazia ogni partito deve mirare — cioè andare al potere e a quel punto provare a essere coerente con le proprie rivendicazioni precedenti, quando al potere non ci stava — la destra e la sinistra italiane hanno praticato un modo di fare opposizione che quasi inevitabilmente si è sempre più caratterizzato per la massima disinvoltura anche a rischio della irresponsabilità. Avanzare e/o appoggiare tutte le richieste possibili e tutte insieme, di qualsiasi categoria sociale, di qualsiasi corporazione. Per ognuna di esse esigere soddisfazione piena e immediata, e dunque rivendicare sempre tutti gli automatismi di carriera, l’ingresso sempre in qualsiasi ruolo di tutti gli idonei, perorare tutte le ope legis immaginabili, tutte le esenzioni fiscali possibili, tutti i trattamenti pensionistici a favore di questa o quella categoria, tutti gli stanziamenti straordinari per qualsiasi cosa. E sempre non tenendo conto di alcun vincolo di bilancio, di alcuna compatibilità tra entrate e uscite, di alcuna funzionalità organizzativa. E in caso di rifiuto da parte del governo in carica ecco scattare all’istante l’accusa al medesimo d’insensibilità sociale, di cieco partito preso, di essere al servizio di qualche interesse inconfessabile; ogni suo argomento immediatamente qualificato come minimo di mendacio o di malafede.
Chi può negare che per decenni l’opposizione in Italia non abbia avuto queste caratteristiche? Certo, poi nella discussione parlamentare tutto veniva regolarmente smussato, addolcito, contrattato. Nessuno — il Partito comunista prima di ogni altro, che era il partito più forte — aveva l’intenzione di arrivare a una rottura. Anzi, come si sa, proprio i comunisti si facevano un vanto di mostrarsi sempre quanto mai ragionevoli e disponibili al «dialogo», al compromesso. Regolarmente nelle Camere le ostilità cessavano per dar luogo a onorevoli armistizi.
Ma nelle strade e nelle piazze restavano comunque le macerie della guerra combattuta fino a quel momento. Nelle strade e nelle piazze: vale a dire nella testa, nelle emozioni, nei riflessi mentali, nel lessico e nelle abitudini espressive di milioni di italiani abituati per decenni e decenni a un confronto politico condotto con le modalità di cui sopra. Possiamo finalmente riconoscerlo? Per mezzo secolo l’educazione dell’Italia alla democrazia è stata nei fatti anche — prego notare: anche — un apprendistato continuo all’esagerazione, alla mancanza di senso della realtà (e spesso del buon senso), al pregiudizio, all’aggressività verso l’avversario considerato comunque un nemico a prescindere.
Un apprendistato alla faziosità, insomma. E insieme alla doppia verità. Nessuno, infatti (perlomeno nessuno di quelli al vertice, e pure molti comuni cittadini, penso), ha mai creduto ad esempio che De Gasperi avesse chiesto davvero agli Alleati di bombardare Roma, che a ordinare di mettere le bombe a piazza Fontana fosse stato Fanfani, o che Craxi nutrisse effettivi propositi dittatoriali. Così come sono convinto che oggi non sono molti a pensare che realmente Silvio Berlusconi abbia aiutato a organizzare gli attentati della mafia o che Giorgia Meloni rappresenti l’anticamera del fascismo. Ma si può sempre contare sulla forza del passato, sugli antichi riflessi condizionati dei tifosi. Meglio dipingere l’avversario come un farabutto che mostrare di non avere nulla da dire.