Da venerdì scorso, quando una variegata miscela di milizie jihadiste e ribelli anti-Asad ha occupato Aleppo abbandonata dalle truppe di Damasco per puntare in velocità verso la capitale, la Siria è rientrata nell’equazione della “guerra mondiale a pezzi” evocata da papa Francesco. Il regime sembra in via di dissoluzione. Pareva così anche nei primi anni Dieci, quando fu investito dall’onda della “primavera araba”. Le prossime settimane permetteranno forse di stabilire se di coma si tratti, preludio della fine, o solo dell’ennesimo rimescolamento delle partite siriane e levantine. Nuova spartizione dei resti di Siria. Per decrittare la scena strategica, studiamola alla luce radente di tre fari. Il primo e più immediato è lo scontro fra Israele e Iran. Per Gerusalemme l’obiettivo strategico è spezzare o almeno allentare il corridoio imperiale iraniano che connette Teheran al Mediterraneo via Baghdad e Damasco, con sbocco a Beirut e ambigua appendice a Sanaa.
Di qui l’attacco a Hezbollah, in Libano, che continua sotto copertura di fittizio “cessate il fuoco”. Offensiva che ha costretto il Partito di Dio a scoprire il fianco siriano per difendere Beirut e dintorni. È uno dei mille paradossi mediorientali che a profittarne tatticamente siano gruppi qaidisti riciclati ad uso occidentale, i quali sul piano strategico servono il disegno israeliano di infragilire l’asse Iran-Hezbollah. Con l’appoggio discreto degli americani, stanziati in Siria orientale nominalmente per proteggervi i curdi e stroncarvi i residui dello Stato Islamico, di fatto per ostacolare l’espansione turca verso e oltre l’Eufrate.
Il secondo riguarda proprio la Turchia, principale sponsor dei ribelli jihadisti. Da otto anni si è riaffacciata sul suo Levante con il doppio obiettivo di stroncare i curdi del Pkk ed estendersi oltre i confini attuali, verso est e verso sud, seguendo le orme ottomane e i precetti geopolitici fissati nel Patto nazionale di Atatürk (1920). Obiettivo possibile solo se gli Stati Uniti sgombreranno il loro spicchio di Siria, in sintonia con il presunto disimpegno dalla regione, cui restano oggi inchiodati perdifendere Israele dalle esuberanze di Netanyahu. E dei suoi disinibiti alleati dell’ultradestra messianica, che considerano Damasco parte del Grande Israele tra Nilo ed Eufrate, come statuito dal ministro delle Finanze e protettore dei coloni Bezalel Smotrich. Il terzo concerne la Russia e si riflette immediatamente sulla guerra in Ucraina. Il regime siriano è (era?) il gioiello del Levante già filosovietico oggi filorusso. Dopo averlo salvato nel 2015, ora Putin rischia di perderlo. Il tardivo, limitato intervento contro i jihadisti di Tahrir al-Sham deriva anche dalla sovraestensione dei suoi impegni militari, in Ucraina ma anche nell’ex Terzo Mondo alias Sud Globale, a sostegno dei regimi antioccidentali.
Mosca deve darsi delle priorità. In cima alle quali è la sconfitta di Kiev intesa neutralizzazione di una nazione che agli occhi di Putin non esiste e non deve comunque incardinarsi nella sfera d’influenza a stelle e strisce.
Quanto ai cinesi, giunti in soccorso dei russi per impedire la vittoria americana in Ucraina, osservano con qualche sgomento la devastazione di territori europei e mediorientali da loro considerati fertili corridoi strategico-commerciali delle nuove vie della seta, dai quali dipendevano e in parte tuttora dipendono per importanti forniture alimentari ed energetiche.
Tra le varianti dell’incerta partita siriana, una sotterranea ma decisiva. La resa di al-Asad potrebbe infatti entrare nel pacchetto della tregua in Ucraina che Trump spera di stabilire entro la primavera prossima e che dovrebbe essere preceduta da un vero cessate-il-fuoco fra Israele, Hamas e Hezbollah. La perdita della “sua” Siria come sovrapprezzo pagato da Putin per l’annessione di fatto dei territori strappati a Kiev e per le ambigue formule che potrebbero mascherare la rinuncia di Zelensky o di un suo successore alla ”irrinunciabile” integrazione atlantica — rinunciabile secondo diversi atlantici, americani inclusi.
L’autocrate del Cremlino potrà consolarsi rimembrando la leggenda islamica che vuole il Profeta refrattario a visitare Damasco perché “bella come il Paradiso”. Meglio godersela in Cielo.