I nuovi schiavi del Colosseo
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21 Settembre 2022
di Paolo Mieli
La storia della Seconda Repubblica è iniziata ventinove anni fa con un evento assai particolare: la convocazione al Quirinale dell’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, «spostato» a Palazzo Chigi per dar vita ad un governo d’emergenza. Curiosamente questa fase di storia dell’Italia repubblicana si chiude (non sappiamo se in via definitiva) con l’uscita dallo stesso edificio, Palazzo Chigi, di Mario Draghi, un personaggio dalle caratteristiche assai rassomiglianti a quelle dell’illustre predecessore. Reduce, Draghi, da un’impresa anch’essa simile a quella che toccò al presidente del Consiglio del 1993. Ciampi e Draghi — com’è noto — non sono stati gli unici premier emergenziali dell’ultimo trentennio. Nel 1995, pochi mesi dopo la temporanea uscita di scena di Ciampi, fu chiamato alla guida di un esecutivo altrettanto straordinario l’ex direttore generale della Banca d’Italia, Lamberto Dini (già ministro di Berlusconi, successivamente leader di un effimero partito di centrosinistra). Sedici anni dopo, fu la volta dell’ex rettore della Bocconi ed ex Commissario europeo, Mario Monti, anche lui scelto per la guida di un governo di salute pubblica e fondatore, in tempi successivi, di un partito dalla vita relativamente breve. Quattro «supertecnici» accomunati dall’aver guidato governi di «larghe intese» a cui i presidenti della Repubblica avevano affidato la missione di far fronte a situazioni che vennero presentate come uniche.
L e prime tre di queste personalità non provenienti dalla politica (e qualche loro ministro ugualmente tecnico) si sono poi affezionate al mondo conosciuto in quell’occasione e sono rimaste in politica. Draghi, a differenza degli altri tre, non sembra desideroso di trattenersi e mettere una qualche radice nel Palazzo popolato da deputati e senatori.
I risultati dell’azione dei quattro «grandi tecnici» sono stati giudicati in termini positivi. Da tutti (o quasi), anche fuori dai nostri confini. A dispetto di tali successi, però, non risulta che qualche altro Paese del mondo contemporaneo si sia sentito incoraggiato all’adozione di questo genere di soluzione per le proprie crisi. Già, come mai nessun altro è ricorso, in emergenza, ai supertecnici? Strano, no? Come mai gli altri Paesi, tutti, si ostinano a procedere per la via tradizionale del ricorso ad elezioni e della scelta di primo ministro e governo sulla base del responso elettorale? Nessun politologo — che ci risulti — ha mai provato a dare una risposta a queste domande.
Così come nessun politologo si è fermato a riflettere sull’effetto che queste esperienze (ripetiamo: ben quattro nell’arco di un trentennio) possono avere avuto sul sistema politico. Le prime due (Ciampi e Dini) non paiono aver intaccato lo spirito dei primi Anni Novanta. Centrodestra e centrosinistra insistettero allora nel dar vita a schieramenti pur disomogenei che esprimevano coalizioni con annessa leadership da portare al governo legittimate da un voto. E furono, tra infiniti tormenti, gli anni dell’alternanza Berlusconi-Prodi. All’inizio del decennio passato, però, le cose sono cambiate radicalmente. Dopo l’esperienza Monti, il centrodestra — ancorché travolto dai marosi provocati dai guai giudiziari di Berlusconi — non ha rinunciato all’idea di presentarsi al proprio elettorato nella sua versione ormai trentennale. E al cospetto delle urne ha regolarmente indicato il capo del governo nel leader (stavolta presumibilmente la leader) del partito che avrebbe preso più voti. Il centrosinistra, no. Intimidito forse dalla qualità dei tecnici che evidentemente considerava superiore alla propria, da più di dieci anni ha scelto di non offrire al Paese né una coalizione né un leader per il governo. Neanche questa volta. Il fronte progressista aveva avuto la stessa esitazione nel 1994 quando si concluse l’esperienza Ciampi. Alle elezioni di quell’anno si presentò senza candidato e fu battuto — di misura — da Berlusconi. Poi la sindrome fu superata, fu trovato un leader nella figura di Prodi (che però aveva l’handicap di non essere capo del partito di maggioranza relativa) e per un decennio la questione fu risolta anche a sinistra. Ma, uscito di scena Prodi, la strana sindrome del ’94 si è ripresentata.
Nell’epoca intercorsa tra l’esperienza di Monti e quella di Draghi (2011-2022) il Pd non ha neanche più provato a conquistare la maggioranza dei voti e dei seggi parlamentari con una propria coalizione di governo. Mai più ha presentato agli elettori un candidato premier. Pierluigi Bersani che avrebbe potuto esserlo se si fosse andati al voto nel 2011, due anni dopo fu costretto a constatare che l’occasione giusta era andata persa. Da allora il Partito democratico si è specializzato nell’arte di giostrarsi nel caos parlamentare, contribuire alla nascita di coalizioni emergenziali e far poi durare la legislatura fino alla fine naturale facendo leva sull’attaccamento degli eletti al posto precedentemente conquistato.
Questo metodo porta con sé indubbi vantaggi: presenza assicurata nel governo e nel sottogoverno, totale deresponsabilizzazione a fronte delle scelte più impegnative, irrilevanza di eventuali insuccessi elettorali. Ma, ora che è finita la campagna elettorale, sorge il dubbio che questo modo di prospettare il proprio futuro — facciamoci eleggere, poi sistemeremo le cose in Parlamento, contando sull’immediato tracollo degli avversari e, nel caso, chiamando a Palazzo Chigi un nuovo supertecnico — possa garantire una qualche affidabilità. Né ci sembra che una prospettiva del genere possa costituire per Mario Draghi un richiamo irresistibile.