Non si può che condividere l’appello al voto di Norma Rangeri, dall’inizio al finale: il peggio del peggio per la democrazia è togliere la voglia di votare. È il dramma che sta davanti a noi.

Un fenomeno drammatico che coinvolge tanti elettori democratici e di sinistra, nella convinzione diffusa che votare non serva. Ma se è così, per contrastare la disaffezione al voto, e la crisi della sinistra, servirebbe un fatto clamoroso, un impegno straordinario di soggetti organizzati e di singole personalità che esprima una volontà “credibile” di un cambiamento di rotta.

Che cosa si può fare oggi, giunti sulla linea di traguardo? Un impegno che valga dal giorno dopo, quando la dura realtà che temiamo sarà un fatto compiuto? Un impegno a fare insieme un esame congiunto del voto per avviare una fase nuova? Un contratto da un notaio in cui chi firma si impegna a lasciare il partito/movimento al quale aderisce per partecipare ad una nuova fase costituente?

Nella mia rete relazionale c’é chi voterà Pd, chi Verdi-Sinistra italiana, chi Unione Popolare, chi M5s. Non parliamo di entusiasmo che non sappiamo più cosa sia, ma gli argomenti a sostegno delle singole posizioni sono spesso deboli da un punto di vista razionale e talora anche simili: con lo stesso scopo (superare la soglia o poter condizionare..) si fanno scelte diverse, e la confusione regna sovrana.

Inutile adesso distinguere tra il 25 ed il 26. Tutti, convinti votanti, probabili astenuti e sostenitori di due voti diversi tra camera e senato per salvare capre e cavoli, saremo costretti ad iniziare un cammino nuovo. Allora cominciamo a tracciarlo e forse così facendo questo ci aiuterà a scegliere meglio cosa fare il 25.

Io metterei al primo posto una ammissione: riconoscere che siamo inadeguati a passare dai mega obiettivi ideali alla traduzione operativa in termini di risorse, tempi, modalità, ad agire nello spazio tra cultura di opposizione e cultura di governo. La prova concreta è per me l’aver accettato che il Pnrr, un’operazione storica per le scelte implicite, per le risorse che impegna e per le condizioni che impone, sia stato approvato dal parlamento senza discutere. Autoritarismo del governo? Si. Ma anche impreparazione dei partiti (sinistra compresa) e delega ai tecnici (scelta comoda per nascondere le proprie debolezze).

Questo vuoto va colmato costruendo un filo che colleghi bisogni sociali, loro traduzione in obiettivi, uso delle risorse, capacità di collegare risorse ed obiettivi e di misurare cosi la politica. Senza restare fermi agli slogan (su questo terreno vince il populismo) e senza mettersi nelle mani dei tecnici (che suicidio quello di Letta con l’agenda Draghi!).

Al secondo posto dovremmo mettere, penso, il tema guerra ed armamenti. Sul sostegno all’Ucraina e sulla condanna della Russia c’è stata una ampia, anche se non totale, convergenza. Ma sulla ricerca di una soluzione diplomatica e di pace e su una linea di riduzione delle spese militari siamo stati deboli. Ammutoliti dalla paura di essere inquadrati come filo russi. Possiamo riprenderci la nostra autonomia di giudizio e di proposte senza allinearci dietro gli Usa? Possiamo riappropriarci del tema del disarmo e delle spese militari come temi di pace e di futuro? Per parlare così ai giovani ed al mondo cattolico?
E che dire del silenzio sulla crisi della globalizzazione e sul multipolarismo di fronte alla rinascita di confini e dazi doganali, e muri commerciali e della nuova divisione globale in blocchi ideologici militari col rilancio di una Nato mondiale?

Per tornare ai temi quotidiani più vicini alla vita delle persone, abbiamo subito una cavalcata del malessere praticata con abilità dalla doppia destra di Salvini e Meloni capaci di collegarsi direttamente a bisogni popolari, a categorie sociali ed economiche colpite dalle crisi. Intrecciando cultura corporativa vecchia e populismo nuovo, queste forze hanno relegato la sinistra nelle aree privilegiate dei centri storici e delle élite. Mentre il sindacato era spinto all’angolo a proteggere i lavoratori vittime della crisi cercando forme e strumenti di difesa. Ma finendo così per abbandonare il campo sociale delle disuguaglianze, delle nuove povertà, del disagio giovanile.

Comunque vadano le elezioni il sindacato e le forze sensibili a questi temi dovranno trovare sintonia e sinergia per condizionare e cambiare la politica. Ne avremmo, quindi, cose da fare dopo il 25. Ciascuno guardi bene in casa propria. Perché della sconfitta che si delinea non siamo tutti ugualmente responsabili. Né possiamo cavarcela chiedendo scusa adesso. Dobbiamo prepararci ad una faticosa ricostruzione con tanta, tanta, umiltà.