A Paris Photo, nel 2019, William Klein (New York, 19 aprile 1926 – Parigi, 10 settembre 2022) firmava copie della ristampa di Tokyo 1961, uno dei volumi fondamentali della storia della fotografia del XX secolo, insieme ai suoi altri «ritratti urbani»: Life is Good & Good for You in New York uscito nel ’56 (l’anno successivo gli valse il Premio Nadar), Roma (1958) e Mosca (1962). L’outsider anticonformista della fotografia sorrideva con quel suo sguardo inquieto e con un guizzo d’ironia mentre metteva le dita a «V» alzando l’indice e il medio. Chissà se lo intendesse come segno di vittoria o «peace & love»: certamente era un gesto partecipativo e spontaneo. Quella stessa spontaneità che lo portava ad affermava che per lui «scattare era una forma di esaltazione»: un fatto fisico che lo caricava di energia.

È PROPRIO QUEST’ENERGIA che attraversa tutti i suoi lavori, a partire da quelli pittorici con la scomposizione e il contrasto di forme e colori che sperimentò nel dopoguerra, frequentando l’atelier parigino di Fernand Léger. Esperienza che riaffiorerà nel 1997, quando orientandosi verso l’«hard edge abstraction» riprese in mano i pennelli per intervenire su vecchi provini a contatto in bianco e nero con le pennellate intinte negli smalti vibranti (il libro Painted Contacts è stato pubblicato da Contrasto Books nel 2020).

Da New York, la città dove era nato e aveva vissuto sulla propria pelle la discriminazione razziale e sociale in quanto ebreo (la famiglia tutt’altro che abbiente era di origine ungherese), cresciuto a Manhattan in un quartiere prevalentemente irlandese (non senza respirare una boccata d’aria fresca ogni volta che frequentava, fin da giovanissimo, il MoMa – Museum of Modern Art e vedendo i film di Charlie Chaplin o Eisenstein), diciottenne si era arruolato nell’esercito americano ed era sbarcato in Europa.

Nella capitale francese era poi tornato nel 1948: un amore che sarebbe durato per tutta la vita e che si sarebbe intrecciato con quello per la modella-pittrice Jeanne Florin che sposò un anno dopo averla conosciuta, esattamente due giorni dopo il suo arrivo a Parigi. Jeanne che era per metà francese e per metà fiamminga e proveniva da una rigida famiglia cattolica fu la sua principale collaboratrice fino alla morte (nel 2005) e si dedicò anche al loro figlio Pierre.

CON LE SUE INQUADRATURE immediate (usava il grandangolo) con cui coglieva un movimento che è sì espressivo ma soprattutto emozionale, Klein che John Szarkowsky definì «il fotografo più intransigente del nostro tempo», ha cambiato radicalmente il linguaggio della fotografia moderna. Nel suo sguardo c’è sempre la ricerca di un ritmo serrato, assai vicino alla narrazione cinematografica. Del resto la sua prima esperienza romana, nel ’56, non fu indenne dalla frequentazione di Federico Fellini che lo avrebbe voluto come assistente mentre girava Le notti di Cabiria. Successivamente lo stesso Klien sarà regista di corti, documentari e dei lungometraggi Qui êtes-vous, Polly Maggoo, Mister Freedom e Le couple témoin.

Insomma, anche quando era alle prese con la fotografia di moda (collaborò con Vogue dal ‘54 al ‘65), Klein catapultava elegantissime e algide bellezze nelle strade newyorkesi, trasformando il momento in una performance in mezzo al traffico e ai passanti. A Tokyo, invece, fotografò nei vicoli squallidi Kazuo Ohno, Yoshito Ohno e Tatsumi Hijikata mentre con i loro corpi davano «forma» alle parole di Jean Genet nel romanzo d’esordio Notre-Dame-des-Fleurs. Come nella danza Butoh forse anche nella fotografia di William Klein il flusso di movimenti è un tentativo di esplorazione dell’inesplorato.