Federico Caffè, il grande economista misteriosamente scomparso nel 1987, era sempre più intellettualmente isolato negli ultimi lustri della sua vita perché le sue posizioni economiche erano sempre più indigeste. Uomo riservato e sobrio, ogni tanto se ne usciva con proposte rivoluzionarie, come quando nel 1972 propose addirittura di abolire la borsa italiana perché era diventata fonte di speculazione piuttosto che meccanismo per convogliare i risparmi verso gli investimenti.

STRENUO PALADINO dell’intervento pubblico nell’economia, sferzò i governi del centro-sinistra per la loro incapacità amministrativa. A favore della nazionalizzazione dell’energia elettrica voluta da Pietro Nenni e Riccardo Lombardi nel 1962, notò che era stata fatta con superficialità tecnica e gestionale, tanto da diventare una «congiura per l’insuccesso».
Caffè riuscì a trovare una inaspettata tribuna proprio sul manifesto: grazie ai buoni uffici del suo allievo Galapagos e al rapporto affettuoso che strinse con Valentino Parlato, riusciva a pubblicare così ciò che le testate maggiori ritenevano eresie. Gli studenti si passavano sui banchi universitari quegli articoli, cui era stato dato l’affettuoso nomignolo di «Fondi di Caffè» e, se ritenuti convincenti, si aggiungeva un «Caffè corretto!» (si veda la raccolta postuma di questi articoli in Federico Caffè, Scritti quotidiani, manifestolibri, 2007 a cura di Roberta Carlini). A trentacinque anni dalla sua scomparsa, Thomas Fazi prova per la prima volta a compiere una analisi comprensiva della sua eredità intellettuale (Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè, Meltemi, pp. 214, euro 18).
La storia delle idee è inevitabilmente storia presente: Fazi, un giovane studioso che per ragioni anagrafiche non ha mai incontrato Caffè, si dedica al suo pensiero è per trovare argomenti a sostegno del proprio sovranismo. Possiamo arruolare anche Caffè nella schiera dei sovranisti? L’occasione, per Fazi, diventa ancora più ghiotta perché il suo vero bersaglio polemico è il più illustre allievo di Federico Caffè, quel Mario Draghi che come direttore generale del Tesoro dal 1991 al 2001, Governatore della Banca d’Italia dal 2006 al 2011, presidente della Banca centrale europea dal 2011 al 2019 e infine come Primo ministro, è stato uno dei principali artefici dell’integrazione commerciale e monetaria dell’economia italiana.

TRAMITE UNA ACCURATA analisi dei suoi scritti, emerge un pensatore non solo contrario alle privatizzazioni, speranzoso nell’intervento pubblico e difensore del welfare state, cose già note perché ribadite costantemente dai suoi allievi, ma anche scettico nei confronti del Mercato comune e del Sistema monetario europei.
Una indiscriminata liberalizzazione del mercato delle merci e dei capitali rischiava secondo Caffè di svantaggiare le zone periferiche dell’unione doganale, impedendo di effettuare quegli investimenti pubblici così necessari per aumentare il livello di occupazione. Caffè era scettico sulla possibilità di giungere in tempi brevi a una reale convergenza dei livelli di produttività tra aree forti e deboli (il che, nel suo contesto, significava tra Germania e Italia), e quindi sosteneva che le aree più deboli dovevano essere protette dalla concorrenza internazionale.
Quando nell’estate del 1971 si ruppe il sistema dei cambi fissi, la politica economica dell’Italia si fondò su un perverso, per quanto efficace, binomio di svalutazione e inflazione. Eppure, ciò ha consentito al nostro Paese di avere una crescita squilibrata ma sostenuta. Quando nel 1998 l’Italia è entrata nell’euro, ha perso gli strumenti di politica economica che aveva fino allora utilizzato: tasso di cambio e tasso d’interesse, oramai stabiliti a Francoforte e non più tra via Nazionale e via XX Settembre. Se per 25 anni la crescita del nostro Paese è stata ben al di sotto dei nostri principali concorrenti, forse lo si deve a ciò.

CI CHIEDIAMO SPESSO che cosa avrebbe detto Caffè degli eventi successivi alla sua scomparsa, ma forse non bisognerebbe interrogare gli oracoli. Posso solo dire che di questi argomenti ho avuto il privilegio di parlare con lui quotidianamente dal 1976 in poi: ero solo uno studente, e da grande maestro qual era, prima ancora che indottrinarmi cercava di farmi capire come operavano le variabili macroeconomiche.
Era scettico sull’Unione europea, senz’altro, ma sapeva anche ascoltare le obiezioni ingenue di una matricola: «senza integrarsi nel Mercato comune, l’Italia non rischia di rimanere in balia dei forchettoni del centro-sinistra?», «se continuiamo ad avere il monopolio dei telefoni, ci sarà mai qualcuno che si degnerà di rispondere all’ufficio reclami?», «se lasciamo la televisione in mano alla Rai, vedremo mai in tv qualcosa di diverso dalle gemelle Kessler?». Caffè allargava le braccia e rammentava che era necessaria una schiatta di politici che fossero prima di tutto bravi amministratori. Beh, il più promettente tra tutti loro era un tale Mario Draghi.