di Francesca Paci
Le ultime tacche di cellulare servono a Talal Okal per mandare messaggi nella bottiglia. A settantaquattro anni vive da una settimana con i figli e una nidiata di nipoti in un bunker al centro di Gaza city. Il bombardamento, che nella tarda serata di ieri ha sventrato l’ospedale al-Ahli, ha terremotato i quartieri circostanti e le ultime umane sicurezze: «Siamo a un paio di chilometri da quell’ospedale, i bambini sono impazziti, si sono nascosti dietro qualsiasi cosa trovassero, un tavolo, una valigia, una poltrona. Abbiamo avvertito l’esplosione come un terremoto, non sapevamo cosa gli israeliani avessero colpito, pensavamo stessero arrivando con i carrarmati, pensavamo fossero qui, sulla strada». Le ultime tacche di cellulare servono anche a capire come, dove, cosa il raid di ieri sera ha colpito. Le immagini mostrano un incendio senza fine, «l’inferno, se dovessi immaginarlo, l’inferno sarebbe così».
Il dottor Okal è un analista politico, scrive da anni commenti per giornali come “Al-Ayyam”, l’ultimo l’ha pubblicato pochi giorni fa, denunciava la pressione di Israele affinché i palestinesi migrassero verso sud come il tentativo di ripetere la Nakba, la catastrofe dell’esodo arabo del 1948: «Gli israeliani ci hanno intimato di andare via, ma dove? Noi in famiglia siamo tanti, non abbiamo nessuno a Rafah e sappiamo che chi è andato staziona da giorni senza prospettive, ieri laggiù ci sono stati addirittura due bombardamenti, una beffa macabra. Non ce ne andiamo, non me ne vado, casa mia è stata distrutta come moltissimi appartamenti delle cosiddette torri, ma io, se proprio devo morire, mi farò trovare vicino a dove sono nato, cresciuto, dove ho costruito tutto quello che adesso non c’è più».
Con l’ospedale bruciano le ultime speranze di tregua nella Gaza che non conta più i suoi morti. «È un massacro» ha commentato a caldo il dottor Ghassan Abu Sittah, uno dello staff di Medici senza frontiere che al momento del raid stava operando dentro l’al-Ahli. È un crescendo, commenta Talal Okal: «Da giorni gli israeliani ripetono agli ospedali di evacuare, ma nessuno credeva che davvero avrebbero colpito i pronto soccorso. Non l’avevano mai fatto finora. Li sottovalutiamo sempre. Non bastano a placare la loro vendetta gli oltre duemila, forse tremila morti palestinesi, il milione di sfollati, non basta metà della Striscia rasa al suolo? Adesso fanno circolare la voce che ad aver distrutto la struttura sarebbe stato Hamas, ma Hamas non ha missili di quella potenza. Che gli assassini si prendano la loro responsabilità. Guardaci occidente, guardaci America che oggi mandi ancora una volta il tuo presidente in Israele a negoziare un uso “moderato” della forza laddove la moderazione non c’è più, se mai c’è stata. Guardateci morire e diteci se solo i vostri sono uomini, donne, bambini».
Le fiamme che hanno divorato l’ospedale al-Ahli e che dalla sua postazione Talal Okal attribuisce all’aviazione israeliana, nonostante con il passare delle ore si moltiplichino versioni contrastanti sulle responsabilità, hanno alzato la temperatura giù critica: «Non so se è un’impressione ma è come se una vampata ci avesse travolti, saranno morte bruciate centinaia di persone, non so quante ce ne fossero, c’erano i pazienti ma c’erano anche migliaia di famiglie come noi che non sono volute partire per il sud non avevano altro posto dove andare. Siamo molto provati, dividiamo un gallone di acqua per famiglia e qua sotto abitiamo al momento tante famiglie. L’acqua serve per bere, lavarsi non si può e neppure cucinare. Mangiamo pane e zatar, l’odore dello zatar è potente e copre tutti gli altri. Fa freddo e poi a volte, come stasera, si soffoca».
Il cellulare è vita e vale la pena rischiarla per uscire una volta al giorno ed attaccarsi al generatore vicino: «Qui, ora, la parola è più importante del pane, racconto dunque sono, racconto quel che vedo e quel che, come il bombardamento dell’ospedale, sento». Poi, in sottofondo, si sente confusione, un boato. E la voce del dottor Okal non si sente più.