La crisi del 2012
Mario Draghi
Le sfide. L’allargamento
Un’unione monetaria può sopravvivere senza un’unione fiscale? Questa è la domanda che ha accompagnato l’area dell’euro fin dalla sua creazione. Poiché fin dal suo concepimento ha impedito trasferimenti fiscali, l’unione monetaria è stata considerata da molti economisti destinata al fallimento, prima ancora di essere lanciata. È sopravvissuta a una crisi esistenziale, tra il 2010 e il 2012, soltanto grazie a soluzioni di ripiego e ancora oggi non si avvicina a dare una risposta a quell’interrogativo.
Eppure, paradossalmente, le prospettive di un’unione fiscale nella zona euro stanno migliorando – perché la natura dell’integrazione fiscale necessaria sta cambiando. In genere, l’unione fiscale viene vista come un trasferimento dalle regioni più prospere a quelle che stanno vivendo recessioni economiche, e in Europa resta forte l’opposizione dell’opinione pubblica alla possibilità che i Paesi più forti sostengano i più deboli. Questo tipo di politica di “stabilizzazione” federale è diventata in ogni caso meno rilevante. La zona euro si è evoluta in due modi che stanno spianando la strada a un’unione fiscale diversa e potenzialmente più accettabile.
Il primo: dal 2012, la Banca centrale europea ha messo a punto strumenti politici atti ad arginare l’indesiderata divergenza tra gli oneri finanziari dei Paesi più forti e dei più deboli e ha dimostrato di volerli utilizzare. Questo ha permesso alle politiche fiscali nazionali – che rivestono un ruolo fondamentale di stabilizzazione nella zona euro – di stabilizzare il ciclo economico. A sua volta, questo rende meno indispensabili i trasferimenti di fondi da un Paese all’altro.
Secondo: l’Europa non sta più affrontando crisi provocate da politiche inadeguate in determinati Paesi. Al contrario, deve confrontarsi con choc comuni esterni come la pandemia, la crisi energetica e la guerra in Ucraina. Questi choc sono troppo grandi perché un Paese riesca a gestirli da solo. Di conseguenza, c’è meno opposizione ad affrontarli attraverso un’azione fiscale comune.
La risposta dell’Europa alla pandemia è stata la presa d’atto di questa nuova realtà: è stato istituito un fondo di 750 miliardi di euro per aiutare gli stati membri dell’Ue ad affrontare la transizione verde e la transizione digitale. Un prerequisito politico fondamentale affinché una compagine fiscale dell’Ue si sviluppi seguendo linee federali è che i Paesi che ricevono questi fondi li usino in maniera efficace.
L’Europa deve ora affrontare una molteplicità di sfide sovranazionali che richiederanno in un arco di tempo limitato investimenti considerevoli, tra cui quelli per la difesa, la transizione verde e la transizione digitale. Al momento, tuttavia, l’Europa non dispone di una strategia federale per finanziarli e del resto le politiche nazionali non possono farsene carico perché le regole fiscali e le regole per gli aiuti di stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente. Tutto ciò contrasta fortemente quanto accade in America, dove per raggiungere gli obiettivi nazionali l’amministrazione di Joe Biden sta allineando spesa federale, cambiamenti normativi e incentivi fiscali.
Se non si agisce, c’è il serio rischio che l’Europa non riesca a centrare i suoi obiettivi climatici, a fornire la sicurezza che i suoi cittadini chiedono, e che perda la sua industria a vantaggio delle regioni che impongono meno vincoli. Per questo motivo, tornare passivamente alle sue vecchie regole fiscali – sospese durante la pandemia – sarebbe l’esito peggiore.
L’Europa si trova davanti due possibilità. La prima è allentare le sue normative sugli aiuti di Stato, permettendo agli stati membri di assumersi il pieno carico degli investimenti necessari. Tenuto conto, tuttavia, che lo spazio fiscale nella zona euro non è distribuito uniformemente, un approccio di questo tipo sarebbe in sostanza oneroso. Le sfide comuni, come quella per il clima e la difesa, sono semplici: o tutti i Paesi raggiungono il loro obiettivo comune, oppure non lo raggiunge nessuno. Se alcuni Paesi possono usare il loro spazio fiscale ma altri no, l’impatto che avranno tutte le spese è inferiore, perché nessuno sarà in grado di arrivare alla sicurezza climatica o militare.
La seconda opzione è quella di ridefinire il quadro fiscale dell’Ue e il processo decisionale per renderli adeguati alle nostre sfide condivise. La Commissione europea ha presentato una proposta di nuove regole fiscali proprio quando – con l’ulteriore allargamento dell’Ue previsto – è arrivato il momento giusto per prendere in considerazione questi cambiamenti.
Le regole fiscali dovrebbero essere allo stesso tempo sia rigide, per permettere che le finanze dei governi siano convincenti sul medio termine, sia flessibili, per consentire ai governi di reagire a choc inatteso. Quelle attuali non sono né l’una né l’altra, e questo porta a politiche troppo accomodanti nei periodi di crescita e troppo rigide in quelli di bassa congiuntura. La proposta della Commissione europea farebbe molto per rimediare a una simile prociclicità. Anche se messa in atto completamente non risolverebbe del tutto il compromesso tra regole rigide – che per essere credibili devono essere automatiche – e flessibilità.
Soltanto trasferendo maggiori poteri di spesa al centro sono possibili regole più automatiche per gli stati membri. A grandi linee, questo è quanto accade in America, dove accanto a un governo federale potenziato si applicano regole fiscali inflessibili ai vari stati, ai quali è vietato in maniera categorica fare deficit. Le regole del pareggio di bilancio sono accettabili proprio perché a livello federale ci si fa carico del grosso della spesa discrezionale.
Qualora dovesse federalizzare parte delle spese d’investimento indispensabili per perseguire gli obiettivi condivisi odierni, l’Europa potrebbe arrivare a un equilibrio simile. La spesa e l’indebitamento federali condurrebbero a una efficienza maggiore e a uno spazio fiscale maggiore, poiché i costi aggregati di indebitamento sarebbero inferiori. Le politiche fiscali nazionali potrebbero a quel punto essere più mirate, concentrarsi sulla riduzione del debito e sulla costituzione di riserve per i tempi peggiori. Regole fiscali più automatiche diventerebbero quindi praticabili.
Riforme di questo tipo implicherebbero di mettere in comune più sovranità, e di conseguenza richiederebbero nuove forme di rappresentanza e un processo decisionale centralizzato. Quando l’Ue si allargherà per includere i Balcani e l’Ucraina, queste due agende confluiranno in un tutt’uno in modo naturale. Noi dobbiamo evitare di ripetere gli errori commessi in passato espandendo la nostra periferia senza rafforzare il centro. In caso contrario, rischiamo di indebolire la capacità dell’Ue di agire, invece di consolidarla.
Una capacità decisionale più centralizzata richiederà, a sua volta, il consenso dei cittadini europei sotto forma di revisione dei trattati dell’Ue, cosa che i policymaker europei si sono astenuti dal fare dai tempi dei referendum falliti in Francia e nei Paesi Bassi nel 2005. Oggi mentre ci avviciniamo alle elezioni europee del 2024, questa prospettiva appare irrealistica, perché molti cittadini e molti governi sono contrari alla perdita di sovranità che una riforma del trattato comporterebbe. Anche le alternative, tuttavia, sono velleitarie.
Le strategie che hanno garantito in passato la prosperità e la sicurezza dell’Europa – fare affidamento sull’America per la sicurezza, sulla Cina per le esportazioni e sulla Russia per l’energia – sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili. In questo nuovo mondo, la paralisi è chiaramente intollerabile per i cittadini, mentre la drastica opzione di uscire dell’Ue ha dato risultati contrastanti. La creazione di un’unione più forte si rivelerà l’unico modo per garantire la sicurezza e la prosperità tanto desiderate dai cittadini europei.
(The Economist)