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21 Marzo 2025Il ciclone Donald
di Federico Rampini
Due mesi di «ciclone Donald» alla Casa Bianca. I bilanci andranno rifatti continuamente, visto il vorticoso attivismo di questa presidenza, capace anche di repentini voltafaccia. Una ricognizione provvisoria deve cominciare dal fronte interno. La maggioranza degli elettori lo votò perché aveva più fiducia in lui che in Kamala Harris sui «fondamentali»: economia, inflazione, immigrazione, ordine pubblico. Pesava anche una reazione di rigetto contro gli eccessi dogmatici della cultura «woke».
l a sinistra ha pagato un prezzo per l’agenda Lgbtq+ più radicale, o le quote di assunzioni e altri privilegi riservati ad alcune minoranze etniche.
Sull’immigrazione Trump ha vinto metà della sua sfida. Sono bastati pochi gesti ad alto contenuto simbolico — una manciata di espulsioni e rimpatri, gruppi di clandestini ammanettati, qualche detenuto a Guantanamo — per esercitare un effetto-annuncio che ha fatto crollare i tentativi di attraversare la frontiera. Trump ha spesso rafforzato misure già prese dai suoi predecessori democratici: i militari al confine col Messico c’erano ai tempi di Obama e Biden, come pure i centri di detenzione. Ma Trump ha «comunicato» una sterzata e il messaggio è stato raccolto nei Paesi d’origine.
È possibile che il venir meno dei flussi illegali di manodopera faccia salire il costo del lavoro e così contribuisca all’inflazione. Tanto più se la raffica di dazi dovesse anch’essa spingere al rialzo i prezzi. Sul fronte economico il clima è peggiorato: le Borse hanno perso quota, la fiducia dei consumatori pure. Le imprese non amano l’incertezza e questa Amministrazione ne crea tanta. Gli investitori, compresi i cosiddetti «oligarchi» (meno compatti o meno onnipotenti di come vengono raffigurati nelle dietrologie), forse avevano abbracciato un’interpretazione tattica dei dazi, pensavano che Trump li minacciasse per ottenere contropartite. Se saranno alti e durevoli lo scenario cambia. Lui ha contribuito all’inquietudine quando ha evocato la possibilità di una recessione, come un prezzo da pagare per risanare l’economia. Su questo una parte dei suoi elettori può rivoltarglisi contro, e si vota fra meno di venti mesi per le legislative di metà mandato.
Le preoccupazioni sulla tenuta della democrazia per adesso sono infondate. Basta vedere quanti provvedimenti della Casa Bianca sono bloccati dalla magistratura: i contropoteri della Repubblica sono vivi e vegeti. Tra le azioni congelate dai giudici figurano molti tagli alla burocrazia e alla spesa pubblica tentati da Elon Musk, anche lui meno dittatoriale e incontrollato di come venga descritto.
Nel resto del mondo il primo effetto di questa presidenza sta nell’aver messo in difficoltà amici e alleati. Europa e Canada si sentono maltrattati più di Cina e Russia, per adesso. Dall’altra parte del pianeta Taiwan e Giappone sono sul chi vive, timorosi di essere più vulnerabili di fronte all’espansionismo cinese. L’unico alleato che gongola è Netanyahu. Israele ha avuto via libera dalla Casa Bianca per la nuova offensiva su Gaza. Gli americani tengono a bada il fronte del Mar Rosso con attacchi agli Houthi dello Yemen. E Trump moltiplica gli avvertimenti contro l’Iran.
In Europa gli shock multipli di Trump non sono privi di benefici. Se è vero che fin dalle origini la Comunità e poi l’Unione europea hanno fatto progressi quando hanno dovuto affrontare delle crisi, la regola sembra confermata. Sulla difesa anzitutto. Trump forse sta riuscendo in un’impresa che sembrava impossibile: svegliare il Vecchio continente dal suo letargo geopolitico, dall’illusione suicida di essere la prima superpotenza erbivora della storia umana. Diversi Paesi europei stanno finalmente adeguando i loro sforzi d’investimento nella sicurezza, e onorano impegni presi oltre un decennio fa (ma sempre disattesi) con Barack Obama. Nell’ipotesi migliore assistiamo ai primi passi nella costruzione di una comune difesa europea, necessaria a prescindere da quel che vorrà fare in futuro l’America.
Un’evoluzione altrettanto importante sembra delinearsi sul fronte economico, grazie ai dazi. La querelle sulle ritorsioni è spesso un diversivo: il protezionismo lo praticano tutti da sempre, più degli americani. L’Europa nacque come una fortezza e in certi settori rimane chiusa; la Cina ebbe privilegi quando entrò nel commercio globale come una nazione poverissima, li mantiene oggi che ha industrie tecnologiche ultra competitive. Ma gli enormi squilibri del commercio estero hanno cause più profonde delle barriere e tasse doganali. Ci sono nazioni dal modello economico mercantilista, trainate dalle esportazioni sui mercati altrui: Cina, Giappone, Germania, Italia, Corea del Sud. I Paesi con questo modello comprimono i redditi e i consumi interni. L’America, con i salari e i consumi più alti del pianeta, è sempre stato per loro il compratore ideale. Quel mondo forse sta crollando sotto le spallate di Trump. La Germania di Merz ne trae la conseguenza positiva: abolisce il tetto al deficit pubblico, si appresta a diventare una nazione spendacciona, non solo in armi ma in infrastrutture. Può diventare la nuova locomotiva della crescita europea.
Gli europei hanno meno da rallegrarsi per l’esordio del dialogo Trump-Putin. La mini tregua è deludente. Putin sembra deciso a tener duro sulle richieste più estreme. Disarmo e neutralità dell’Ucraina. Rifiuto di qualsiasi forza militare straniera d’interposizione. Concessioni territoriali «definitive», riconosciute dalla comunità internazionale, e forse anche al di là dei territori già occupati con la sua aggressione criminale. Putin potrebbe esigere perfino un pieno recupero della sfera d’influenza di Mosca nell’Europa centrorientale, con il ritiro dei soldati Usa entro i vecchi confini della Nato pre 1990. Questo significherebbe sguarnire Polonia e Paesi Baltici, fra l’altro. Bisogna sperare che risultino inaccettabili per Trump e lo spingano a rivalutare la «sponda» europea.