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4 Novembre 2024
di Francesco Giavazzi
Sempre più il nostro futuro, quanto meno in campo economico, ma non solo, dipende da decisioni prese a livello europeo. Questo accade perché i problemi che dobbiamo affrontare, dal cambiamento climatico alla possibilità di difenderci se venissimo aggrediti da un altro Stato, non possono essere risolti da un Paese solo, soprattutto se piccolo come il nostro. Pensavamo che l’appartenenza, finora sostanzialmente senza costi, alla Nato fosse sufficiente: già oggi non lo è, ed è probabile che dopo le elezioni americane lo sarà ancora meno.
Sempre di più, però, l’Europa appare priva di smalto, affaticata, lenta nelle scelte. Questo significa che decisioni importanti vengono ritardate o comunque sono il risultato di troppi compromessi. Ad esempio, l’unanimità richiesta per le regole fiscali comuni o per decisioni che hanno un’influenza sulla politica estera fa sì che l’Ue sia spesso ostaggio di qualche Paese membro, oggi l’Ungheria. Tutti problemi superabili, si riesce persino a sopravvivere con Orbán presidente di turno dell’Ue, ma allineato ad un Paese con il quale siamo di fatto in guerra.
Nel frattempo si discute di assetti alternativi, in particolare della possibilità che l’Ue non debba procedere sempre tutta insieme, ma alcuni Paesi possano andare avanti da soli, come si fece inizialmente con gli accordi di Schengen sull’abolizione delle frontiere all’interno dell’Unione, e poi con l’euro.
N ella speranza che altri Stati membri, inizialmente scettici, possano riconsiderare la loro posizione una volta che la scelta è stata attuata. È un’opzione prevista dai trattati con il nome di «Cooperazioni rafforzate», e richiede qualcosa di meno dell’unanimità: basta che nessun Paese si ritenga danneggiato dall’avvio, da parte di alcuni altri, di una nuova politica. Prima o poi questo accadrà e l’Ue si trasformerà, da un’organizzazione sostanzialmente intergovernativa, in una vera unione. Ma i tempi saranno lunghi.
Tuttavia, limitarsi ad aspettare l’evoluzione degli equilibri all’interno dell’Ue non è una strategia lungimirante. Anticipando l’idea di «cooperazioni rafforzate» si potrebbe cominciare forgiando alleanze limitate ad alcuni Paesi, per poi possibilmente estenderle ad altri. Ma questo richiede leadership e visione, qualità purtroppo scarse oggi in Europa. Se Giorgia Meloni fosse capace di attivare tali alleanze, il nostro peso nell’Ue aumenterebbe, e con esso la nostra capacità di influire sulle scelte comuni. Invece ci accontentiamo di trarre beneficio dal fatto che la presidente del Consiglio italiana pare essere l’unica che dialoga con Orbán.
Un governo si misura anche dal ritardo nel comprendere i cambiamenti in atto, il che comporta inevitabilmente un ritardo nell’affrontarli. Ad esempio dal capire troppo tardi che anziché sgravare un’azienda di parte dei contributi da versare quando assume un nuovo operaio specializzato — che comunque non si trova perché scuole che gli insegnino quella particolare specializzazione non esistono — sarebbe meglio stanziare una somma equivalente per formare un giovane ancora fuori dal mercato del lavoro.
Considerate i progetti di transizione verde nel settore automobilistico: richiederanno la riqualificazione di milioni di lavoratori in tutti i Paesi europei, che dovranno essere addestrati per imparare nuovi mestieri. Potrebbe essere questa una proposta italiana di cooperazione rafforzata. Ma se non siamo capaci neppure di far funzionare i nostri 550 Centri per l’impiego (con la sola eccezione di quello di Milano che è un raro gioiello) figuriamoci se possiamo aspirare ad essere un modello per l’Europa.
Potremmo proporre la revisione di alcuni aspetti del Green deal. Ma dobbiamo evitare che questo si traduca nel «liberi tutti» al quale stiamo assistendo in Italia dove ogni Regione pensa di poter fare la propria politica energetica. Magari ostacolando quelle tecnologie di produzione di energia pulita da fonti rinnovabili che saranno, volenti o nolenti, le tecnologie del futuro.
L’unica proposta che sinora siamo stati in grado di fare è il «progetto Albania» nell’illusione che qualcun altro in Europa ci segua: finora non è accaduto.
Aver posto il tema dei migranti all’attenzione dell’Europa sarà stata una scelta positiva solo se integrata con le scelte di politica interna. Che non possono essere ridotte a lasciar fuori dalla porta potenziali immigrati, dei quali avremmo bisogno come del pane, senza neppur sapere se sono persone qualificate o con esperienze imprenditoriali. Ma quali processi trasformativi può innescare una simile scelta nel nostro Paese al di là dello sciocco orgoglio di aver chiuso i confini?