Valentina Fortichiari
Estroso e ricettivo sin da piccolo, bambino lasciato solo a costruire il proprio mondo interiore e subito stregato dagli esseri umani, Za aveva allenato molto presto quella poetica dell’occhio che farà di lui l’artista che conosciamo. Quando comincia a tenere nota di ciò che sente e guarda, a resocontare giornate, notti insonni, a raccontare e raccontarsi per trovare nessi fra sé e le cose, è nel pieno della maturità. Davanti alla pagina bianca di un grosso quaderno, appunta una data, 14.1.1941, enfatizza un gesto: «Oggi ho deciso di cominciare questo diario». È a Roma da poco più di un anno: ha deciso il «salto nella fossa dei leoni» del cinema come disse De Sica, che lo convinse a lasciare il mondo editoriale milanese.
Da questo momento il tempo dedicato alla stesura di un diario diventerà pratica irrinunciabile, sottratta al riposo nel silenzio delle notti. Abitudine alla quale Za era predestinato: dire Io gli dava un ancoraggio, era un modo di conoscere l’umanità attraverso se stesso, di passare dalla cronaca privata alla storia di tutti. «Una prova che io sono come gli altri», commenta. In prima persona l’esordio narrativo con i primi libri, ovvero le storiette di Parliamo tanto di me (1931), I poveri sono matti (1939), Io sono il diavolo (1941), dove da subito scopre le carte e rivela la sua scoperta: siamo fatti – tutti – della stessa pasta di tempo.
Diario, autoritratto, lettera, scrittura autobiografica, sono strumenti per coniugare parola e immagine in un flusso ondivago di pensieri e sentimento. Nessun palpito narcisistico: con la velocità degli occhi che corrono su tutto, Za compie un viaggio verso l’archetipo del proprio io per un desiderio di verità, per il piacere di consumare la vita nelle risonanze introspettive. «Per sapere veramente come stanno le cose basterebbe mettersi lì e scrivere, scrivere tutti i giorni e a un certo punto ci sarebbe l’acqua o il petrolio o il fuoco o il centro della terra, la felicità e il dolore o qualche cosa del genere», così Za scrive a Sibilla Aleramo, nel gennaio ‘50, dando una delle più originali autodefinizioni del suo processo creativo. I diari sono anche canovacci di sceneggiature e germi di opere letterarie (Ligabue, Viaggetto sul Po).
Alla diaristica Za si era preparato con lo scrupolo di chi studia, cerca modelli, si confronta: leggendo i diari di scrittori famosi, si analizza, si educa a essere onesto, schietto, a non barare. Mette a punto una personale poetica del diario come forgiasse il ferro caldo del mestiere. Si dà regole: il diario deve essere lungo o corto, non deve contenere ripetizioni. Se Goethe scriveva giorno per giorno, si impone di scrivere almeno dieci righe al giorno, vigile contro il disordine, la discontinuità, l’insincerità in agguato sotto la pagina. Avverte e teme il rischio di sguardi estranei di famigliari curiosi delle sue confessioni. Anticipa addirittura il momento in cui i quaderni potrebbero finire nelle mani di «chicchessia», essere fraintesi, provocare guai. Meglio bruciarli, prima di scomparire. Ma non lo farà.
Il suo diariame – «tritume di nomi fatti pensieri» – contiene tutto, l’intera sua anima temprata a ironizzare, redarguirsi, amare o denigrare; l’istinto di essere onesto con sé e debole con gli altri; l’ansia di divorare – avido – ogni esperienza e ritornarci anni dopo, deluso, amareggiato, spiando il proprio fallimento. Insoddisfatto sempre («sono famoso per quello che non ho fatto»), oppure in stato di grazia, all’apice dei sensi, talmente esaltato da credersi Dio, di essere Dio, di infilarsi nei panni di un poeta che cammina sull’acqua ma non sa nuotare, di un giocoliere, di un mago. Tutto nelle sue parole riflette un’esuberanza che mai si discosta dall’infanzia. Questo il suo segreto: la capacità di essere bambino, di stupirsi, di trascorrere da un incanto all’altro, di sperdersi nella vibrazione di una scrittura che lo ammalia.
Leggendo i diari, pare di udire la sua voce tonante, appassionata, accompagnata dai gesti larghi delle mani per aria, ad afferrare fantasmi. Za riesce a far sorridere, commuovere e indignare, mai annoiare o restare indifferenti. Za c’è, intero e solido in ogni pagina, in ogni passaggio, in ogni vocabolo mai scelto a caso, ma assaporato e tenuto in bocca a intiepidire come un sorso di lambrusco della sua terra. A volte, in margine al foglio, scatta lo stimolo di un disegno in bianco e nero, di un quadretto a colori, per approfondire con l’immagine qualcosa che sfugge al detto.
E quando sente che la grafia vacilla, la memoria comincia a svaporare, con il senso della fine affiorano i ricordi, ritorna – vivo – il padre, perduto troppo giovane. L’incontro tra i due mette i brividi, al solo pensare, come Za, che morire non è finire, oppure scomparire, bensì è una dislocazione, un andare altrove: «Con questo obbligo: di non farsi riconoscere dalle persone care. E delle volte può darsi che magari ti incontri con tuo padre, il quale rompe il patto – diciamo così – per uno slancio incontenibile di affetto. Sono tali e tante le cose che non sapremmo neanche da che parte cominciare. E lui, dopo pochi minuti strappati a questo patto, magari se ne va, senza che ci siamo detti neanche una parola».