La strada stretta del governo tra gli ostacoli economici e la sfida europea
di Annalisa Cuzzocrea
«Simul stabunt simul cadent» è il motto più citato – in queste ore- nei palazzi di governo e Parlamento. «Vivranno insieme o insieme cadranno», è il significato, e le protagoniste sono ancora una volta Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Lo spettro che spaventa entrambe, la premier dal primo giorno in cui ha messo piede a Palazzo Chigi, la segretaria pd da quando ha cominciato ad analizzare meglio le mosse del Correntone che nascerebbe in teoria per appoggiarla, non è nuovo alla politica italiana: si chiama governo tecnico.
Alle tre e mezzo del pomeriggio, mentre i deputati sono impegnati a varare un provvedimento su cui hanno appena votato l’ennesima fiducia, a Montecitorio si diffonde rapida l’ultima agenzia che arriva dai mercati: «Lo spread ha toccato 200 punti base». Il differenziale tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi è salito molto più rapidamente di quanto non avesse previsto, solo pochi giorni fa, Morgan Stanley. La banca d’affari scriveva, preoccupata, che di questo passo sarebbe potuto arrivare a 200 punti a dicembre. Sono bastati quattro giorni invece di tre mesi, segno che le fibrillazioni sono maggiori di quanto gli stessi investitori non avessero previsto.
La politica, però, era già sul pezzo. Orologio indietro, martedì mattina, funerali di Giorgio Napolitano: un capannello di deputati ricorda uno dei momenti più controversi della sua storia, quando diede vita al governo Monti sacrificando così anche il suo partito sull’altare dei tecnici. «Sta accadendo di nuovo», dice Andrea Orlando, «non lo vedete? Ed è per questo che cominciano a massacrare anche Elly. Loro due vanno insieme».
I segnali che chi non auspica uno scenario del genere, a destra come a sinistra, ha cominciato a mettere in fila e a ritenere preoccupanti, non sono pochi: cominciano il 6 settembre, con l’intervento di Mario Draghi sull’Economist: «All’Europa servono nuove regole e più sovranità condivisa». Non proprio miele, per le orecchie dei sovranisti. Continuano il 13, quando l’ex premier accetta dalla Commissione Ue l’incarico di delineare una strategia sul futuro della competitività europea.Poi il 16, quando arriva un incarico anche per Enrico Letta, tanto da far dire a Carlo Fidanza, plenipotenziario di Meloni in Europa: «Evidentemente in questo periodo gli ex premier italiani sono molto gettonati a Bruxelles». Ma a far scattare l’allarme rosso a Palazzo Chigi è l’editoriale del Financial Times del 18 settembre: il titolo è «La luna di miele è finita». E poi: «La legge di bilancio di Meloni metterà alla prova l’instabile relazione con gli investitori». È lì, che comincia a scattare la retromarcia: sulle banche non si può tirare troppo la corda, e la tassa sugli extraprofitti viene rivista e di fatto neutralizzata. Gli attacchi al commissario europeo agli Affari Economici Paolo Gentiloni rientrano, da giornalieri che si erano fatti. Con le istituzioni europee e con i mercati non si scherza, si sta seduti bene a tavola. Meloni c’era, quando nel 2011 questo costò il governo a Silvio Berlusconi. «Quella lezione è stata imparata – dice il sottosegretario all’Economia Federico Freni – questo livello di spread è fisiologico, non c’è una maggioranza elettorale frastagliata, i fondamentali economici sono completamente diversi. Nel Conte 1, lo spread aveva toccato 300 punti». Solo che poi, appunto, il Conte 1 è caduto. Ma Claudio Borghi, al Senato, fa gli stessi identici ragionamenti, quelli circolati in queste ore nella Lega: «Quando siamo arrivati al governo lo spread era a 250 , il momento a livello europeo è complicato, ma non siamo neanche lontanamente vicini alle condizioni del governo Berlusconi».
È vero. Ma questo non ferma la paura strisciante, e le contromosse nascenti. «Che questo spettro ci sia è provato dal fatto che Meloni lavora dal primo giorno affinché non si materializzi», dice in Transatlantico il deputato pd Matteo Orfini elencando le cautele: da quelle in economia ai buoni rapporti con l’amministrazione americana. Poi certo, va da Orban a difendere Dio, ma quelle mosse – dice chi la conosce bene – nascono dal suo timore più grande: tradire sé stessa e la sua storia. Solo che, l'”irrituale” lettera a Scholz sulle Ong, la fuga di Piantedosi dalla riunione dei ministri Ue che di fatto ha bloccato il nuovo patto sulle migrazioni, il tira e molla sul Mes, sono tutti tasselli che formano un nuovo puzzle agli occhi di Europa e mercati. E sulla scatola si legge: “inaffidabilità”. Così si comincia a intravedere un cordone di sicurezza attorno all’Italia: Draghi, Letta, ma anche il governatore designato della Banca d’Italia Fabio Panetta. «Se ci fosse lui, non sarebbe necessario spaccare Fratelli d’Italia, la stessa Meloni potrebbe decidere di lasciar vivere un governo di larghe intese per poi lucrarci su elettoralmente altri dieci anni», ragiona un ex ministro. Tutto questo chiaramente in caso i dati economici e l’autunno caldo portassero il Paese a una situazione di estremo malessere. È un’ipotesi decisamente lontana, ma non vuol dire che non ci sia chi si prepara.
E a prepararsi, come sempre, è il Partito democratico. Che ha letto in questa chiave l’incontro accordato da Sergio Mattarella al commissario europeo dem Paolo Gentiloni lo scorso 21 settembre: un segnale all’Europa, lui ha l’appoggio italiano, nei giorni degli attacchi di Meloni e Salvini. Ma anche un segnale a premier e vicepremier: attenzione a destabilizzare, che poi a cercare un nuovo equilibrio è il capo dello Stato. L’ha già fatto una volta. E qui veniamo a Schlein, che ha capito – in queste ore – che l’operazione Arcipelago che le era stata presentata come un sostegno, potrebbe ribaltarsi in poco tempo nel suo contrario. All’incontro con il capo di Areadem Dario Franceschini sono stati chiamati i rappresentanti di tutte le correnti che hanno sostenuto Schlein al Congresso, tranne una: la sinistra di Andrea Orlando e Peppe Provenzano. Quella che ha detto chiaramente No all’agenda Draghi, e che davanti a un nuovo scenario direbbe: elezioni. A dire “al voto” sarebbe anche Schlein. Ma più grande è il “correntone” che dice di sostenerla, più forte il rischio che la butti giù, se lo schema cambiasse. A quel nascente correntone lei ha dato entrambi i capigruppo, di Camera e Senato. Mossa azzardata, che ora la preoccupa. «È un’operazione a doppio taglio», ha detto in queste ore. «Simul stabunt simul cadent», appunto. E anche per questo, l’idea di correre alle elezioni europee da capolista sfidando Giorgia Meloni, si fa sempre più concreta. Come fosse il primo tempo di una partita che entrambe vorrebbero giocare fino in fondo, scacciando la paura che qualcuno – o qualcosa – possa fischiare prima del tempo.