di Viola Ardone
Sono stata al minorile di Nisida, quello di “Mare fuori” per intenderci, per diversi anni. Tenevo insieme ad altri colleghi un laboratorio di scrittura a ragazzi e ragazze minorenni o appena maggiorenni che potevano sembrare dei miei alunni e invece avevano commesso dei reati, reati molto gravi. Quando sentivo le loro storie pensavo a come fosse stato possibile, cercavo di capire in quale momento le loro esistenze si erano spezzate fino ad arrivare a un punto di non ritorno. La loro insegnante in carcere, Maria Franco, mi spiegava che il motivo per cui erano lì era soprattutto uno: capire. La cosa più difficile per loro, mi diceva con l’esperienza di una che al carcere aveva dedicato gran parte della sua vita, era comprendere la gravità di quello che avevano fatto. Ci voleva tempo per recuperare il senso del bene e del male, quella lancetta che in molti indica in modo istintivo la differenza tra la cosa giusta e quella sbagliata: il valore di una vita umana, la sofferenza inflitta a un altro essere vivente, il significato della prevaricazione e dell’abuso. Per molti di quei ragazzi era un percorso lungo e complicato. Il pentimento è qualcosa che si conquista, giorno dopo giorno, così come l’elaborazione di una violenza commessa, la consapevolezza del peso specifico delle proprie azioni.
Lo stupro di Palermo è un evento di una violenza assoluta, totale, a cui coloro che l’hanno perpetuata non hanno dato alcun valore. Non condivido la posizione di quelli che parlano in maniera sommaria di carcere a vita, di castrazione chimica, e che usano espressioni come “buttare via la chiave”. Ma allo stesso modo sono convinta che non basti una frase di ravvedimento per tornare alla vita di prima, che non sia sufficiente dire: c’ero anche io ma non ho fatto nulla di grave. Uno dei ragazzi del branco è stato scarcerato e messo in comunità perché ha confessato, si è reso disponibile a collaborare e ha sostenuto di non avere avuto le stesse responsabilità degli altri. Se anche fosse così, in verità, sarebbe ugualmente colpevole, perché è complice chi guarda e tace, chi di fronte al male volta lo sguardo, chi sente che quello che sta succedendo, nello spettro dell’etica, si trova dalla parte opposta rispetto al bene e nonostante questo non fa nulla per evitarlo. La cultura dello stupro passa anche per di qua, ed è fondamentale che questi ragazzi capiscano, che interiorizzino con i tempi e i modi previsti dalla legge tutta la gravità disturbante del loro agire.
Su un caso di stupro ho scritto un romanzo, Oliva Denaro, ambientato in un’epoca non troppo lontana dalla nostra in cui la violenza sessuale era in qualche modo ammessa dallo Stato, legittimata attraverso l’istituto barbarico del matrimonio riparatore, rimasto in vigore peraltro fino al 1981. Mi sono domandata scrivendo, perché scrivere è una funzione del capire, che cosa avesse compreso il violentatore di quella storia di abuso. Mi sono risposta che non aveva capito niente. L’impunità che in un modo o nell’altro la legge italiana assicurava a coloro che prendevano una donna contro la sua volontà non era solo una palese ingiustizia ma un’implicita istigazione a delinquere, la rassicurazione che in fondo una donna è una preda. Perché più debole fisicamente, perché se pressata psicologicamente è incapace di reagire, soprattutto se sotto effetto di alcol o di altre sostanze. Il tempo è passato e le leggi sono per fortuna cambiate. Oggi le donne denunciano ma non sempre sono credute e sono costrette a sommare lo sfregio della deprivazione violenta del loro corpo a quello di una gogna pubblica che spesso le giudica conniventi. A Palermo una ragazza è stata violentata, in qualche modo è stata uccisa perché la ferita che le stata inflitta non si rimarginerà mai più. Non esiste punizione che possa sanarla, esiste però il modo per combattere la cultura dello stupro, senza scorciatoie, senza ipocrisie. Questo almeno lo dobbiamo, a lei e a tutte.