È pensabile che il primo segnale di rinnovamento che gli elettori si attendevano – dopo la suicida spaccatura pre-elettorale che nel settembre scorso consegnò il Paese al centrodestra – fosse l’inevitabile ricambio delle leadership sconfitte: del resto, avviene così in ogni parte del mondo. Ma poiché la politica italiana continua a vivere di regole proprie, solo il Partito democratico ha ritenuto di dover marciare in quella direzione. E il verbo marciare pare davvero il più appropriato, visto che ci sono voluti quasi cinque mesi per salutare Enrico Letta e dare il benvenuto – si fa per dire – ad Elly Schlein. Tempi da Medioevo, insomma, quando la posta viaggiava su carrozze a cavallo…
La Caporetto elettorale e un anno di opposizione, dunque, non hanno prodotto novità sostanziali nel campo degli sconfitti. L’unico sommovimento veramente rivoluzionario si è sviluppato appunto nel corpaccione deluso degli elettori Pd, che hanno imposto alla guida del partito una donna che non era nemmeno iscritta e che per cultura politica e profilo personale è quanto di più distante si possa immaginare dai segretari (rigorosamente maschi) cui si era abituati. Una scommessa. L’accoglienza, all’inizio, è stata di curiosità ed interesse, la stampa grande e piccola ha vissuto per mesi sul dualismo tra Giorgia ed Elly, ma da un po’ anche il cammino della coraggiosa neo-segretaria è parso farsi in salita.
Giuseppe Conte, invece, è al suo posto, nonostante alle ultime elezioni i Cinquestelle – con lui prima premier e poi capo politico – abbiano più che dimezzato i consensi. Anche Calenda è lì dov’era: di nuovo leader di Azione, dopo il sabotaggio dell’alleanza di centrosinistra alla vigilia del voto e l’esito deludente, diciamo così, dell’esperimento “terzo polo” e della sua intesa con Renzi. Pure l’ex premier – quando è in Italia – è al suo posto, appena riconfermato capo di Italia viva: è ridotto al 2,5 per cento ma continua a coltivare grandissimi progetti, camminando sulla linea di confine tra destra e sinistra, sempre attento a cogliere l’opportunità migliore. E sono dov’erano anche Bonelli, Magi e Fratoianni. Sette leader, nel centrosinistra: come i colli di Roma o i nani della favola. Dall’altra parte ce ne sono al massimo un paio, dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi. E chissà che anche questo non significhi qualcosa…
È vero che, messa così, la foto non è entusiasmante. Ma nemmeno dalle parti del governo, evidentemente, le cose girano come dovrebbero, almeno a giudizio degli elettori: altrimenti non si spiegherebbe il fatto che, a poco più di un anno di distanza dal voto del 25 settembre, gli ultimi sondaggi elettorali collocano il centrosinistra precisamente lì dov’era, oltre il 48 per cento, con un calo di appena lo 0,3%. Numericamente la si direbbe una partita che resta aperta: ovviamente a condizione che, vigendo un sistema elettorale maggioritario, i sette leader – o qualcuno di loro – non continuino il gioco del “no, con te non ci sto” .
I tempi sono quelli che sono, e la riscossa – naturalmente – non è semplice. Leaderismo, sovranismo, guerre ed egoismi non sono il terreno più favorevole per politiche progressiste, improntate ai diritti e alla solidarietà. Ma segnali piccoli e a volte lontani dicono che qualcosa comincia forse a cambiare; e che qualcos’altro potrebbe progredire più rapidamente, se fatto oggetto di una campagna politica chiara e coerente.
Segnali dall’estero, dalla Spagna e dalla Polonia, per dire, dove la corsa delle destre sovraniste ed antieurpee si è fermata. E segnali dall’interno, dove l’unica battaglia comune messa in campo in un anno dal centrosinistra – intendiamo quella sul salario minimo – è riuscita comunque a costringere il governo sulla difensiva. Ma si è trattato dell’unica iniziativa unitaria in 12 mesi. Per il resto, il copione è stato quello noto: personalismi, distinguo e smarcamenti sempre più pericolosi. Perché dividersi sul sostegno all’Ucraina, per esempio (e vedremo cosa accadrà circa la guerra in Medio Oriente), è questione capace di pregiudicare qualsiasi alleanza di governo.
Con una sintesi un po’ azzardata, insomma, si potrebbe dire che in quest’anno non tutto il tempo è andato sprecato: ma la gran parte sì. E si potrebbe aggiungere che tra qualche mese si torna al voto per le Europee. Decidano loro, i sette leader, che segnale intendano mandare. Nessuno pretende il “tutti per uno”: ci si accontenterebbe di evitare almeno il “tutti contro tutti”…