Vigilia del 2 ottobre – giorno delle elezioni per presidente, senatori, membri del congresso e governatori degli stati brasiliani. Arriva l’ora di scaricare l’applicazione della tessera elettorale digitale oppure cercare quella cartacea tra i propri documenti. È anche ora di annotare a mano i numeri dei candidati scelti, pur di non sbagliare nel voto. Ed è ora di scegliere persino i vestiti giusti per andar a votare, evitando il colore rosso – non è chiaro quanto i seguaci di Jair Bolsonaro siano disposti a obbedire ai suoi ordini di non rispettare i risultati delle urne. Il 2 ottobre si gioca per vincere al primo turno. Veramente, si gioca per la vita.

Piove e fa freddo nella maggior parte del Brasile, ed è stata così tutta la settimana. Se non ce n’è proprio bisogno, è meglio non uscire di casa. E così sembra che gli ultimi quattro anni siano stati vissuti nella stessa maniera, in Brasile: nel raccoglimento della sconfitta, della tristezza, dei quasi 700 mila morti per Covid e della paura di prendersi una pallottola da uno qualsiasi, da quando Bolsonaro ha sbrodolato il suo odio contro la scienza, le donne, la foresta, gli indigeni e contro l’esistere: «Voglio che tutti si armino».

Volevamo tutti dimenticare di come la gente, dicendosi delusa dalla vecchia politica, abbia lasciato che si eleggesse il peggio del peggio. Persino in tanti (ex) compagni hanno creduto che tanto la gente si sarebbe pentita prima o poi di aver scelto la strada più oscura della destra. Non si sono resi conto che «muoia Sansone con tutti i filistei» non è una forma nuova, sicura o intelligente di politica.

Ora sembra vigliaccheria voler restare al caldo mentre si avvicinano le elezioni più polarizzate che ci siano mai state, se ci paragoniamo alla grinta dimostrata fino alla morte dai compagni che hanno lottato contro la dittatura militare. Noi, invece, figli di quell’epoca, abbiamo imparato ad essere decoloniali e ad avere la coscienza che non ci sono lotte grandi o piccole, ci sono solo le nostre lotte, nate dalla necessità di resistere.

Al comizio di chiusura della campagna elettorale a San Paolo ovviamente ha parlato anche Geraldo Alckmin, candidato a vice-presidente di Lula, l’ex governatore dello Stato di San Paolo ed ex memebro del Partito della social democrazia brasiliana (Pdsb), di centrodestra, con cui Lula ha stretto un patto per aggiudicarsi i voti moderati e centristi del ricco stato paulista. È responsabile dell’alto tasso di precarietà nelle scuole pubbliche locali – responsabile persino di tanto gas lacrimogeno lanciato sulla maggioranza dei presenti in piazza. Eppure non si sente un solo fischio. Neanche da quelli picchiati dalla polizia di Alckmin, tempo fa, né da quelli offesi alla morte quando Lula, cazzeggiando, diceva di non essere mai stato di sinistra.

In quella piazza, il 24 settembre, c’era solo la coscienza dolorosissima tra tutti che ormai i tempi consigliano di votare in modo utile. Sì, lo sappiamo tutti. Non è un argomento facile da affrontare. Vorremmo non essere stati ammazzati o violentati dall’odio razziale, religioso, di genere e di classe, così sarebbe ancora possibile polemizzare su ogni cosa.
Luís Inácio Lula da Silva sale sul palco, da dove vede gli antichi compagni metalmeccanici e li saluta per nome. La sua voce, più bassa e rauca rispetto a quando era un leader sindacalista, sembra rallegrata dai suoi ricordi. «Mi piace venire qua in Zona Est, dove ritrovo tanti compagni di una volta. Dove ho trovato l’amore. Dove c’è il Corinthians». Si mette la maglietta della sua squadra del cuore ed è tutta una festa.

 

 

In questi ultimi giorni capita di ricevere e scambiare una marea di messaggi attraverso le reti sociali, con tanta rabbia, ma anche tanta di speranza. È appena uscito un video in cui Chico Buarque si rivolge a coloro che non amano Lula ma vorrebbero salvare la democrazia. Caetano Veloso, Gilberto Gil e un centinaio di artisti si sono fatti vedere facendo la «L» di Lula con la mano, in opposizione ai gesti di Bolsonaro che mimano la pistola e il mitra. Persino Raí, fratello più piccolo di Sócrates, il calciatore, indimenticato campione della Democrazia Corinthiana, è comparso in un video in cui si limita a dire: «Voto per Lula, perché sono antirazzista e antifascista». Bravo, Sócrates sarebbe stato orgoglioso di te.

E per non dire che non abbiamo parlato dei fiori – che forse sembra piuttosto amaro ai cantautori dover ancora comporre canzoni di protesta in Brasile -, giorni fa Chico César ha fatto uscire una sua provocazione contro i bolsominions. Dice che sono demoni, che dai bordelli vanno direttamente in chiesa, che festeggiano con Satana nei loro condomini. Siamo tutti d’accordo al riguardo.

Non giudicateci. Non si può vivere sereni con chi ci ruba l’umanità. Con chi è coinvolto nell’omicidio di una consigliera comunale come Marielle Franco perché di sinistra, lesbica, nera e periferica. Che dice che non avrà mai una nuora nera poiché ha istruito bene i propri figli. Che nel periodo più buio della pandemia si è fatto riprendere imitando i malati senza ossigeno negli ospedali.

Una compagna mi scrive: «Dai, se vinciamo al primo turno, dal 2 ottobre mettiamo insieme carnevale, mondiale di calcio, natale e tutto il resto». Magari.

Non ce la facciamo più con «i palestrati senz’anima che pascolano senza riflettere, la risata gonfiata e la borsa di valori senza valori», come dice Chico César.