Ho conosciuto Franco Basaglia che l’esperienza dell’ospedale psichiatrico di Gorizia era già finita; lavorava da qualche anno a Parma ed era nell’aria “il principio dell’avventura triestina”.
Sono andato a trovarlo a Colorno, con alcuni compagni, tutti laureandi in medicina, interni all’Istituto di malattie nervose e mentali. A Napoli, negli anni caldi, avevamo letto L’istituzione negata. Stavamo già ereditando dal 1968 interrogativi e problemi: il rapporto tra la professione e gli apparati del potere, il ruolo subalterno del medico, la dissociazione tra professione e impegno politico.
Era la prima volta che entravamo in un manicomio e non nascondo il senso di disgusto, di nausea, di panico che quel primo impatto mi provocò. Franco Basaglia ci accolse con familiarità, ci mise a nostro agio. Nel manicomio di Colorno, quel giorno stesso, partecipammo perfino a una riunione con gli operatori. Nessuno indossava il camice. Discutevano con calore, non risparmiando toni duri. Tutto alla luce del sole. Un altro mondo!
Il contrasto con l’esperienza universitaria era stridente, ci disorientava, ma eravamo già conquistati, affascinati. Basaglia ci disse che sarebbe andato a lavorare a Trieste e che cercava medici freschi di laurea. Più semplice – diceva – formare nuovi psichiatri in una pratica nuova, piuttosto che tentare di cambiare testa e cultura a vecchi psichiatri. E il rapporto con noi fu affettuoso, attento, duro.
Appena arrivati a Trieste, nel novembre del 1971 ci inviò subito “al fronte”, nei reparti, con le nostre insicurezze, a contatto immediato con tensioni e durezze che ci mettevano alla prova. Passavamo giornate intere nei padiglioni di San Giovanni. A sera, in riunioni quotidiane, affrontavamo con lui i problemi della giornata, i rapporti non facili con gli infermieri, le storie degli internati e i bisogni che emergevano. Quando ci cacciavamo in vicoli ciechi, Basaglia riusciva sempre a spostare i termini del problema, a darci un altro punto di vista, a capovolgere le situazioni.
Riuscì a capovolgere anche la nostra vita. Eravamo avviati a una vita professionale forse frustrante e dissociata: da un lato la professione medica, con i suoi rituali, le sue distanze dalla realtà, dalla concretezza dei bisogni; dall’altro l’impegno politico, quello che restava del Sessantotto. Quanti di noi si sono persi drammaticamente nel carrierismo esasperato o al contrario in scelte politiche estreme e senza sbocco!
ORIZZONTI SCONOSCIUTI
Con Basaglia abbiamo trovato la nostra strada, senza dissociazioni: è stata la lenta «lunga marcia attraverso le istituzioni» vivendo quotidianamente l’urgenza violenta del cambiamento. Basaglia ci ha fatto scoprire orizzonti sconosciuti: abbiamo abbandonato le sicurezze della formazione universitaria; abbiamo imparato che le persone con disturbo mentale sono e non sono capaci di vivere la dimensione relazionale; abbiamo imparato che anche chi vive l’esperienza del disturbo schizofrenico si muove su terreni diversi di capacità, e che mai la malattia in sé può condizionare totalmente le sue facoltà di scelta; abbiamo imparato quanto sia importante la tutela della soggettività, l’attenzione a ogni singolare esistenza che diventa la condizione indispensabile per la costruzione e lo sviluppo della guarigione sempre possibile.
È accaduto così che la malattia ha potuto assumere una diversa visibilità in relazione alla persona, ai suoi bisogni, alle sue capacità, ai suoi desideri. E che il pessimismo della diagnosi poteva venire arginato.
SMARRIMENTO
Negli ultimi anni la presenza delle buone pratiche basagliane si è fatta sporadica. Ovunque sono tornate prepotenti le parole delle psichiatrie dei farmaci, della pericolosità, dell’inguaribilità, del posto letto, delle smisurate “strutture residenziali”.
Nella solitudine e nella frammentazione di oggi è difficile, specie per i più giovani, resistere all’omologazione, al richiamo dell’indifferenza e alle suggestive certezze delle psichiatrie. E, nella smemoratezza generale, smarrire il senso delle scelte di campo che hanno avviato il radicale cambiamento nel nostro paese.
Il campo delle contraddizioni si è fatto più aspro. La miseria e l’inefficienza dei servizi mette alla prova quotidianamente persone che vivono l’esperienza, familiari, operatori. La disattenzione e la sciatteria dei governi regionali e delle direzioni aziendali, e spesso degli stessi direttori dei dipartimenti, è ormai intollerabile. Per non dire delle accademie.
Negli ultimi mesi abbiamo dato nuovo impulso al Forum salute mentale, una piazza in cui persone che per ragioni e a titolo diverso frequentano i luoghi delle psichiatrie e della salute mentale si incontrano, si riconoscono, parlano, convinti dell’urgenza di arginare lo smantellamento della sanità pubblica e della rete dei servizi territoriali ormai ridotta a miseria e fragilità.
Ora, con le elezioni alle porte, la piazza del Forum vuole adoperarsi perché la salute mentale entri in una qualche agenda, ché venga colta la drammaticità in cui versano i servizi di salute mentale. Bisogna iniziare a bussare forte alle porte della politica.
Due disegni di legge sono depositati in parlamento e pensiamo possano essere la via d’uscita che andiamo cercando. Le “Disposizioni in materia di salute mentale”, firmato da Nerina Dirindin nel 2017 e riproposto nell’ultima legislatura, che darebbe piena attuazione alla legge 180, e il disegno di legge a firma Riccardo Magi, che permetterebbe di superare le vecchie norme del codice Rocco, a proposito di irresponsabilità penale, misure di sicurezza e tutto ciò che ne deriva, restituendo, insieme alla responsabilità penale, dignità a chi ne viene privato.
«Bisognerà andare per strada a gridare la nostra presenza contro tanta sordità, gridare il dolore dei fatti che ogni giorno accadono», l’ultimo appello dal Forum.
Ancora oggi, nell’Occidente ricco e agiato, come nel nostro paese, un ragazzo che vive l’esperienza dell’esordio psicotico rischia, nell’attimo stesso della diagnosi, di diventare invisibile. Viene rinchiuso in unità psichiatriche bunker, svanisce la sua storia, la sua voce diventa muta. Smarrisce il senso della sua vita. Le psichiatrie, che ormai dominano il campo, con le loro porte chiuse, i loro letti di contenzione, le loro riduttive farmacologie cancellano la dimensione umana che rende appena dignitoso questo nostro mestiere.
E noi facciamo nostre le parole di Eugenio Borgna, grande vecchio, voce struggente e drammatica, che col suo ultimo libro L’agonia della psichiatria continua a invocare una psichiatria gentile.