Le nostre librerie strabordano di libri sulle Brigate rosse. La stagione del terrorismo è, insieme con il Ventennio e la Resistenza, il periodo storico più studiato del Novecento italiano. Dando una rapida scorsa al catalogo delle ultime uscite, non si lesina certo sui titoli: Il «lodo Moro» di Valentine Lomellini (Laterza), L’affaire 7 aprile di Roberto Colozza (Einaudi), La strage di Bologna di Paolo Morando (Feltrinelli), Segreti e lacune di Benedetta Tobagi (Einaudi). E questo solo considerando i libri di taglio storiografico di alcune delle principali case editrici del Paese, come se non si potessero poi aggiungere i romanzi, le memorie, le autobiografie, le testimonianze di chi è stato protagonista, dei sopravvissuti e dei figli di chi invece è stato vittima degli anni di Piombo.

Eppure, Dolore e furore Una storia delle Brigate rosse (Einaudi «Storia», pp. LI-704, euro 38,00), è un libro quantomeno singolare. Il suo autore Sergio Luzzatto, professore di Storia moderna europea alla University of Connecticut, ha abituato i suoi lettori a narrazioni storiche dettagliate e ricche di documenti inediti, frutto di lunghe ricerche d’archivio. A questo proposito, non posso non ricordare L’autunno della Rivoluzione (1994), Il corpo del Duce (’98) o il più recente Partigia (2013), dedicato alla storia partigiana di Primo Levi, prima della deportazione ad Auschwitz. Si tratta di lavori che hanno suscitato quasi sempre un ampio dibattito critico, talora anche internazionale, fuori e dentro il mondo accademico.

Non credo che questo libro sarà destinato a una sorte diversa, ancor più per la prospettiva inedita con cui è raccontata la storia italiana delle Brigate rosse. Dolore e furore è forse innanzitutto uno dei pochi libri che investe la dimensione biografica del suo autore, non solo perché Luzzatto è «genovese di nascita», come tiene a precisare nella scarna quarta di copertina, ma perché suo padre fu coinvolto dagli avvocati difensori di Lotta continua, in qualità di testimone, in un processo che si svolse a Roma nel 1973, contro il sostituto procuratore della Repubblica di Genova, Mario Sossi (sequestrato dalle Br un anno dopo): «Giunio Luzzatto – si legge – (mio padre), (…) professore all’Istituto di Fisica».

Il legame familiare, nonché quello di nascita con la città di Genova, sono un buon terreno di coltura su cui far germogliare l’interesse per la storia delle Br, radicate nei diversi territori regionali del centro Nord e strutturate in colonne. Genova è «città-palestra di lotta armata» e «città-laboratorio» di violenza politica sin dagli esordi del gruppo XXII Ottobre, che si macchiò di quello che Luzzatto considera il primo omicidio del terrorismo rosso: l’assassinio di Alessandro Floris (1971) nel corso di una rapina finita in tragedia. Ma per tutti gli anni settanta la città rimase un punto di riferimento dell’universo brigatista. Non tanto per la presenza di un vivace mondo operaio il quale fu in buona sostanza impermeabile alla logica terroristica, quanto per quel sottobosco cittadino fatto di personaggi ai margini a cui si rivolsero con profitto il sociologo Giovanni Senzani e lo studioso di Petrarca Riccardo Fenzi, i cosiddetti «cognati rossi», che fecero da collante tra il mondo universitario e quello dell’emarginazione, e furono gli unici veri intellettuali brigatisti.

In questa storia si insegue però il filo rosso di un’unica esistenza, se ne studia l’infanzia e la prima giovinezza, perché l’autore è convinto della necessità di affrontare, in sede storica, il terrorismo sin dentro le sue origini storiche, cioè dal boom economico, e di seguirlo per tutti gli anni settanta e oltre il processo di frammentazione indotto dal sequestro Moro. Non è dunque un arbitrio che la biografia di Riccardo Dura – è lui il protagonista del libro – possa essere accostata al racconto di Sartre, Infanzia di un capo: «Così, se ritrovata fin dall’infanzia, la vicenda di Dura – spiega Luzzatto – può illuminare un versante dell’antropologia brigatista che è stato trascurato, finora, nel lavoro degli storici: il versante dello sradicamento originario, dello spaesamento, forse anche della discriminazione culturale, e comunque dello svantaggio materiale conosciuto da ragazzini “terroni” nel Nord-Ovest del miracolo economico». La vicenda della sua infanzia «può definire il contesto genetico del percorso adulto [di altri capi brigatisti], dapprima verso un’acculturazione politica, poi verso una vocazione rivoluzionaria».

Della vita di Dura si sa poco. I documenti sono lacunosi, negli stessi fascicoli delle procure italiane coinvolte il suo nome non compare. Nondimeno, egli ebbe un ruolo di spicco nella colonna genovese delle Br: fu l’assassino dell’operaio comunista Guido Rossa (a cui Luzzatto ha già dedicato una biografia, Giù in mezzo agli uomini, Einaudi 2019), e fu poi a sua volta ucciso dai carabinieri, diretti dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che su più fronti aveva messo in atto una durissima repressione contro i terroristi. Nella notte del 28 marzo 1980, Dura e i compagni, che dormivano in un appartamento di via Fracchia a Genova, furono circondati e uccisi. Dura morì in circostanze non del tutto chiare, raggiunto da un colpo ravvicinato di pistola al cranio.

Lo sguardo dello storico indugia sulla Genova della speculazione edilizia, delle fabbriche di Stato, dei palazzi universitari della facoltà di Lettere in via Balbi, e del porto. E lì anima la vita del giovane capo, la muove dentro la Garaventa, una nave-scuola adibita a riformatorio minorile, e poi per diversi porti italiani, e infine la rintraccia di nuovo a Genova, una città schiacciata tra le morse di due grandi chiese, il Pci e l’arcivescovado del cardinale Siri. Luzzatto cala la vicenda brigatista in un brulichio di micro-eventi, talora anche insignificanti come la lunga lettera, colma di risentimento, che Dura rivolse alla madre, e che hanno spesso poco valore in sé, ma che assumono massa e vigore nel contesto generale. Anche i fatti di cronaca più noti, come ad esempio la strage di Piazza Fontana (1969), con la quale si fa iniziare la stagione del terrorismo italiano, non sono descritti o ripercorsi nel dettaglio, ma dati per noti, e letti solo alla luce della loro ricezione sul territorio genovese, del modo in cui cioè il campo degli attori in gioco si plasma e prende forma.

Forse è questa una delle chiavi del libro: seguire le piccole molecole che si diramano in modo caotico e centrifugo, e solo dopo cogliere il composto unitario, l’insieme. Verrebbe da dire la ferita, perché Dolore e furore fa luce su questo: su un gruppo di emarginati della modernizzazione, spaesati e figli di un’epoca in cui aleggiava lo spettro di un paventato golpe fascista che spinse a radicalizzare lo scontro, a rinfocolare la strategia della tensione: «Perché insistere tanto – scrive Luzzatto parafrasando le parole che gli rivolse in una lettera Rossana Rossanda, nel giugno del 2010 – (senza “alcuna prova”) sulle responsabilità dei professori, di Toni Negri o di chi per lui, nel “formare e dirigere i gruppi armati”?

Certo, le parole pronunciate in quegli anni da Negri e compagnia erano state “enfatiche e deliranti”. “Ma il passaggio dalle dichiarazioni agli atti non è cosa da poco: le parole non sono pietre”. Piuttosto, “un vero problema di storia sarebbe indagare a fondo perché in Italia, come in nessun altro paese d’Europa, l’effervescenza durò dal 1968 almeno fino al 1980, ed ebbe dopo il 1969 delle frange armate che divisero il movimento e contribuirono al suo spegnersi”. “Sono anni pieni di dolore e furore e varrebbero la pena di una analisi”». Ecco, l’opera di Luzzatto vuole essere una risposta esaustiva alle parole di Rossanda, che sollecitavano uno studio sull’animo umano e sulle cause del perdurare in Italia di un regime di terrore e violenza.