La notizia della prossima vendita da parte del Ministero dell’Economia del 4 per cento del capitale di Eni (con un incasso previsto di almeno 2 miliardi di euro) è arrivata ieri, ossia a circa due mesi di distanza da quella della cessione del 25 per cento del Monte dei Paschi di Siena con un incasso di quasi un miliardo e che era stata preannunciata – tra una certa disattenzione dell’opinione pubblica – nel Nadef, la Nota di Aggiornamento del bilancio pubblico di fine settembre.
Questo documento ipotizza vendite di imprese di proprietà pubblica per circa 20 miliardi in 3 anni, un programma che è stato ribadito dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nella conferenza stampa dello scorso 4 gennaio.
Sorge allora l’interrogativo sul significato di queste vendite a privati di imprese la cui maggioranza risulterà, a operazione terminata, ancora saldamente in mano pubblica, e, a quanto si può desumere, senza che tra gli acquirenti ci siano grandi compratori con interessi diretti nel settore e volti alla “conquista” dell’Eni. Dovrebbe ripetersi il caso del Monte dei Paschi le cui azioni offerte in vendita sono state acquistate da numerosi fondi investimento, soprattutto esteri, ciascuno con quantità relativamente modeste.
Fin qui tutto (abbastanza) bene. Sarebbe però necessario che le vendite di questo tipo avvenissero nella cornice di una chiara strategia di politica industriale che invece è da tempo mancante. Certo, a parità di altre condizioni, questi introiti riducono, sia pure di poco, il debito pubblico; si tratterà però di un effetto minuscolo, visti l’ammontare del debito e il bisogno di impiegare somme ingenti in altre iniziative: va sottolineata la necessità di ricapitalizzazione dell’Ilva, per evitarne la chiusura che avrebbe conseguenze pesanti per tutta l’economia italiana e permetterne l’ammodernamento e il risanamento e continuando da tutta una serie di progetti infrastrutturali grandi e piccoli che sono rimasti fuori dal Pnrr.
Sarebbe opportuno che maggioranza e opposizione cogliessero l'”occasione Eni” e si accordassero per un grande dibattito nel Paese e in Parlamento su ciò che occorre fare nel medio periodo, su ciò che l’Italia vuol essere non solo tra pochi mesi ma anche tra qualche decennio.
Passando da questo quadro generale a quello specifico dell’attività dell’Eni, occorre rilevare che si tratta di una delle presenze maggiori – fore la maggiore – dell’economia italiana nel quadro economico-industriale del mondo. L’Eni è ai primissimi posti per l’estrazione di gas e petrolio degli ambienti più difficili, soprattutto a carattere marino. Questo avviene in almeno una necina di paesi, dall’Angola al Golfo del Messico, dall’Egitto (con la gestione di Zohr, un grande giacimento sottomarino di gas naturale) al Kazakistan dove l’Eni è fortemente presente anche in progetti relativi alle energie rinnovabili. L’Eni fa uso non solo di tecniche molto avanzate ma anche di procedure di conduzione a carattere pressoché unico al mondo: man mano che i giacimenti scoperti vengono portati allo stadio della produzione, l’Eni cede quote azionarie della sua società operativa locale al governo del paese in cui il giacimento si trova e anche ad altri operatori, riservandosi la gestione degli impianti, una garanzia per tutti. Si tratta di una procedura che facilita la collaborazione tra questi paesi e l’Italia e, più in generale, con l’Unione Europea. La società Green IT, controllata dall’Eni ha un programma di investimento di oltre 800 milioni di euro in cinque anni ed è uno dei principali strumenti per la transizione energetica del Paese, soprattutto con progetti di incremento dell’energia rinnovabile.
Dobbiamo quindi fare attenzione a non privarci del controllo di questo gruppo industriale che è oggi forse il più bel “gioiello di famiglia” di cui l’Italia economica disponga; il che non vuol certo dire che vendite parziali che non influiscano sul controllo non si debbano fare. Anzi, è bene che il ricavato di queste vendite venga destinato a progetti di sviluppo decisi alla luce del sole.