Lucio Caracciolo
«Il via libera del Consiglio europeo ai negoziati per l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue aiuta a guardare oltre, ma da qui a immaginare un vero ruolo dell’Europa ce ne corre. Certo se questo non ci sarà creeremo un buco nero di dimensioni epocali». Lucio Caracciolo, 70 anni a febbraio, 30 anni della rivista di geopolitica Limes da lui fondata, in tutto questo tempo ha capito «che tra la realtà e il modo in cui la percepiamo c’è un abisso che cerchiamo faticosamente di colmare».
In Ucraina vince Putin, come insinua l’Economist?
«Di sicuro perde Zelensky e più di lui l’Ucraina, che non recupererà i territori e sarà uno stato fallito. Ha perso un terzo degli abitanti, molti dei quali rifugiati che non torneranno. È dipendente da Usa e Ue, e questo avrà dei costi politici ed economici soprattutto per l’Europa visto il disimpegno americano. La ricostruzione è stimata dalla Banca mondiale 500 miliardi di dollari».
A livello globale come cambiano gli equilibri?
«La situazione volge a favore della Cina, perché la Russia recupera territori tra cui la Crimea, ma il Paese del Dragone diventa più influente sull’ex impero sovietico. Questa guerra era evitabile dagli Usa, che a partire dai primi anni 2000 hanno finanziato forze antirusse in Ucraina. I neocon, ben rappresentati al Dipartimento di stato da Blinken, hanno scommesso sull’Ucraina nella Nato e sulla caduta di Putin».
Hanno fallito tutti?
«Gli ucraini sono stati usati dagli americani per dissanguare i russi e hanno sbagliato a rinunciare alla mediazione turca su pressione degli angloamericani. Il bilancio russo è un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, dipende da dove si guardi. All’origine di tutto c’è la crisi americana, che ha portato a una sconfitta strategica provando sulla pelle degli ucraini l’inconsistenza della propria capacità di deterrenza. Putin ha attaccato un protettorato Usa e ora tutti nel mondo sanno di poter fare altrettanto».
Passando al teatro israeliano, la soluzione due popoli-due stati è un’utopia?
«Una specie di Palestina informale è stata Gaza, ma Israele l’ha evacuata pensando di impiantarvi l’Autorità palestinese mentre Hamas si è opposta. Non dimentichiamo l’ambiguità israeliana per cui Hamas è stata foraggiata indirettamente per usarla contro l’Autorità palestinese. L’atto inaudito di terrorismo di massa del 7 ottobre ha inferto a Israele una ferita incancellabile. Netanyahu ora vuole fare tabula rasa a Gaza, allagare i tunnel e gestire la Striscia al posto di Hamas, così come intende avanzare in Cisgiordania. Una reazione eccessiva? Israele poi si sentirà più sicuro e che conseguenze questo porterà sulla diaspora? Domande da porsi, anche se Israele è uno stato, mentre i palestinesi non sono nemmeno una nazione bensì una questione umanitaria».
In questi teatri di guerra ci sono interessi secondari, per esempio la vendita di armi?
«Gli accordi di Abramo hanno una componente militare importante. Quando i sauditi hanno compreso che gli Stati Uniti li proteggevano di meno dall’Iran hanno ordinato i sistemi di difesa israeliani. Far discendere tutto dalle armi però sarebbe troppo, anche perché queste guerre hanno mostrato una crisi incredibile dell’industria americana. Il primo motivo dell’intervento Usa in Ucraina è semplicemente strategico, cioè colpire la Russia, renderla una potenza secondaria e staccarla dalla Cina. Un obiettivo fallito».
Che ruolo ha il Qatar nello scacchiere globale?
«È un’agenzia di servizi. Una volta si chiamava Costa dei pirati. Si tratta di un piccolo Paese ricco di gas, di cui impiega i proventi per proteggersi e influenzare diversi teatri. Negli anni è diventato un luogo di incontro tra americani, europei, israeliani, iraniani e sauditi. C’è una grande base americana e i turchi forniscono la guardia pretoriana al palazzo dell’emiro Al-Thani. Certamente la crisi israeliana non era nelle intenzioni del Qatar, che ha pagato una tangente mensile ad Hamas per sostenerla e dimostrare agli israeliani la propria affidabilità».
In tutto questo l’Italia ha riacquisito centralità dopo la caduta del muro di Berlino?
«Oggettivamente sì. Si trova in una zona calda tra Balcani, Medioriente e Nordafrica, ha il secondo schieramento militare americano in Europa, non a caso dopo la Germania, ed è considerata una portaerei sul Mediterraneo».
In Italia si avverte più propaganda americana o russa?
«Più che propaganda abbiamo un maggiore vincolo culturale e strategico con l’America e questo si sente. La propaganda russa qui non ha grande effetto ed è più spesso rivolta al proprio interno. La spedizione sui vaccini fu però curiosa e l’idea che un Paese Nato come l’Italia abbia permesso a militari russi di scorrazzare liberamente meriterebbe un’indagine adeguata».
Trump vincerà le elezioni Usa dell’anno prossimo?
«Contro Biden sì, ma tutti gli scenari sono aperti».
Sarebbe un disastro?
«Sarebbe la conferma della crisi americana. Trump con modi eccessivi ha solo ripetuto quello che si sapeva già dalla fine della guerra in Iraq ovvero che c’è una tendenza al disimpegno. Questo ha attivato alcune medie potenze come Turchia, Polonia, India e Giappone».
La Cina supererà gli Stati Uniti?
«Dipende dai parametri. Come Pil sì, come guida del mondo libero meno. La Cina ha sempre vissuto nell’idea di essere il mondo più che di conquistarlo».
Esiste ancora una superiorità morale americana?
«Sì, anche se sempre di meno, ma la Cina non ambisce e comunque non ha le qualità per sostituire la leadership americana».
È da poco scomparso Henry Kissinger, come lo ricorda?
«Non era americano né per nascita né per cultura. Il suo modello era il Congresso di Vienna con i grandi che si mettono d’accordo per fare la pace. Ha funzionato nella Guerra fredda, ha provato a farlo fino all’ultimo con la Cina, ma quel tempo è finito perché tutte le potenze sono in crisi, comprese Cina e Russia».
Per l’Ue ha ragione Macron ha puntare su Draghi?
«Draghi o no il problema è la sostanza dell’Ue, che non evolve verso una qualche forma di statualità e soggettività geopolitica, ma ognuno gioca per sé e scarica i problemi sugli altri. Ue e Nato sono strutture burocratizzate difficili da cambiare, hanno perso senso e sono più sterili. All’atto pratico alcuni Paesi europei si metteranno d’accordo rispetto ad altri: Italia, Francia, Spagna e Germania hanno interessi comuni, mentre altri dell’Est o del Nord meno. L’europeismo è stato un’illusione che ha esasperato i nazionalismi più che mettere assieme gli europei».
Ha ragione Mario Monti ad elogiare la politica estera del governo Meloni e a suggerire il veto sul Patto di stabilità?
«È simile a quella dei governi precedenti, molto tattica più che strategica e non pienamente consapevole dell’evoluzione di cui abbiamo parlato. La stagione dei vincoli esterni è finita e questo significa assumersi maggiori responsabilità nell’alleanza atlantica. Il rapporto con l’America non può essere solo passivo, ma deve essere anche attivo. Il Patto di stabilità è un limite per l’Italia e questo sistema, di cui siamo parte e non spettatori, non è nel nostro interesse».
La premier Meloni sosterrà la nuova Commissione Ue?
«Penso vorrà far parte della maggioranza, che temo però non cambierà i destini né dell’Ue né del mondo».