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16 Marzo 2025Novecento italiano «Mario Pomilio. Interviste (1956-1989)», a cura di Andrea Gialloreto, Les Flâneurs Edizioni
L’ufficiale-professore Peter Bergin ne era convinto: «Procura d’incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio». Il tema dell’inafferrabilità di qualcosa d’essenziale, presente e sgusciante (V., in termini profani, secondo Thomas Pynchon), è tipico della letteratura postmodernista e Mario Pomilio, proprio in romanzi come Il quinto evangelio (1975) e Una lapide in via del Babuino (’91), esplora i punti di rottura e sutura, le discontinuità epistemologiche della «nuova forma», dal crinale cattolico senza mai smarrire l’identità e svecchiando notevolmente gli architravi narrativi. L’ampia raccolta dialogica Mario Pomilio Interviste (1956-1989) a cura di Andrea Gialloreto (con un saggio di Paola Villani, Les Flâneurs Edizioni, pp. 318, € 20,00) è il terreno ideale per saggiare le intenzioni, le tensioni, l’ethos, le consapevolezze di un «quinto Pomilio», che si affianca così allo scrittore, all’accademico, al saggista e al giornalista.
Si tratta di quarantadue conversazioni – uscite negli anni su «La Fiera Letteraria», «Gente», Paese Sera, Avvenire, Il Mattino, «Italianistica» e altri quotidiani e riviste – che si configurano in una «selezione ristretta» rispetto al mare magnum della cinquantennale presenza pomiliana tra stampa, radio e televisione. Il volume, come ben sottolinea Villani, è «una quête, alla ricerca di Pomilio, seguendo stralci indiziari di un governatissimo autore che, con pudore, si rivela mentre si cerca, si rivela nel cercarsi si direbbe, e con generosità e onestà intellettuale dedica tempo e attenzione a rendere le ragioni della sua poetica».
Defacement o exotopia (suggerirebbe Michail Bachtin): siamo in ogni caso dentro un’«autobiografia interrotta» – e non in un accomodante autoportrait – in cui emerge, a tratti, la differenza tra l’«io profondo» e l’«io autobiografico» (in «ItalianQuarterly», 1985) in una costante uscita da sé. Grazie anche alle sollecitazioni di specialisti del genere letterario dell’intervista (da Michele Prisco a Claudio Toscani, da Mariapia Bonanate a Renato Minore), lo scrittore originario di Orsogna offre – senza mai palesare il cuore del suo laboratorio – i frammenti, gli spifferi, gli incompiuti del mestiere: tutti tasselli probanti che sembrano autorizzare l’ipotesi di un Pomilio cristianamente postmoderno, alle prese con la fine dei métarécits («La crisi, a mio giudizio, va inquadrata in un fenomeno più profondo e generale: il tramonto delle ideologie», in «Studi cattolici», luglio 1965), nella logica della supplementarità o della destinerranza derridiana.
La redazione consiglia:
Derrida e l’ospitalità senza condizioni come orizzonte politico
Riflessioni varie su costume, società, politica e religione; il romanzo quale «meditazione sull’uomo» (in Ritratti su misura, 1960); il rischio dell’omologazione (in Avvenire, 2 aprile 2015, ma registrata nel 1989); una guida di lettura a Natale del 1833 («La vera soluzione teologica sta nell’ultima pagina del libro, dove all’incirca si dice che il Cristo, scegliendo di soffrire, s’è alleato per sempre a chi soffre: “La storia della vittima è la storia stessa di Dio”, se lei rammenta», in «Il ragguaglio librario», febbraio ’83): Pomilio appare sempre più un osservatore smagato della contemporaneità, disorganico, rizomatico, labirintico. Non a caso, attorno al suo opus magnum, dichiara con schiettezza: «I miei libri sono sempre problematici, carichi d’interrogativi. (…) Questo non toglie che Il quinto evangelio sia un libro altro. Lo è in assoluto già per via delle strutture, che sono una novità rispetto al modo in cui finora avevo trattato il romanzo e credo rappresentino un caso singolare nello stesso panorama sperimentale odierno. Lo è per me personalmente perché, oltre a rappresentare una grossa scommessa inventiva e strutturale, è il risultato d’una lunga rimeditazione del tema religioso compiuta alla luce di quanto è accaduto nel mondo cristiano in questi anni» (in «Uomini e libri», gennaio-febbraio ’75). Il riferimento è ovviamente al Concilio Vaticano II e al tempo di ripensamento della Chiesa cattolica. E non si creda che la «condizione del cristiano» sia soltanto quieta e remissiva: Pomilio la vede «tutta attraversata da interrogativi, da impazienze, da inquietudini». E conclude, serafico: «Se dovessi anzi indicare, nell’odierno panorama, un settore veramente in movimento, non statico, non appagato, indicherei quello cristiano» (in «Colloqui di storia e letteratura», gennaio-agosto ’75).
Inoltre, nota a ragione Gialloreto, «lo studio delle interviste (…) potrà agevolare la mappatura della foltissima rete dei rimandi intertestuali e delle fonti palesi o nascoste a monte della scrittura pomiliana». E quindi, a cascata: Blaise Pascal, Simone Weil, Albert Camus, François Mauriac, Georges Bernanos, Julien Green, Pierre Teilhard de Chardin, Jacques Maritain, Corrado Alvaro, Ignazio Silone. Siamo dinanzi a un’officina di pensiero e di scrittura dal respiro nitidamente europeo, a un uomo all’inseguimento di una «meta mobile», a un Vangelo che fa «da reattivo – da segno di contraddizione – nella storia».