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Una tragedia «imprevedibile», in queste dimensioni. Glaciologi, nivologi, volontari del soccorso alpino e habituée della Marmolada sembrano tutti d’accordo nel considerare il crollo del seracco di ghiaccio sommitale di Punta Rocca – che ha interessato la via normale sulla quale alcune cordate erano impegnate per salire fino alla cima di Punta Penia – un evento fuori dalla portata di previsione di cui si dispone attualmente. Malgrado le temperature eccezionali (oltre i 10° sopra i 3000 metri, dove è avvenuto il crollo), malgrado il rapidissimo cambiamento climatico in atto, malgrado la forte antropizzazione e l’iper sfruttamento turistico che in generale mortifica l’habitat montano e mette a rischio sempre più vite, malgrado il monitoraggio continuo di quello e di altri ghiacciai alpini. Eppure, mentre un violento temporale nel pomeriggio di ieri ha ulteriormente rallentato le ricerche dei dispersi che già dalla notte erano state ridotte al solo uso di droni e elicotteri a causa delle condizioni instabili del ghiacciaio, lo stesso premier Mario Draghi giunto sul posto non ha potuto tralasciare una considerazione di carattere generale.
«QUESTO – ha detto da Canazei dopo un sopralluogo e un colloquio con i vertici del Soccorso alpino impegnati dalle 13:45 di domenica, ora dell’implosione del ghiacciaio – è un dramma che certamente ha dell’imprevedibilità, ma certamente dipende dal deterioramento dell’ambiente e dalla situazione climatica. Oggi l’Italia piange queste vittime e tutti gli italiani si stringono a loro con affetto, ma il governo – aggiunge Draghi rivolgendosi alle forze politiche più negazioniste – deve riflettere su quanto è accaduto e prendere provvedimenti per fare in modo che quanto avvenuto abbia pochissima probabilità di accadere di nuovo».
IL BILANCIO, purtroppo parziale, è al momento di 7 morti di cui solo 3 identificati, 8 feriti di cui due gravi e 13 dispersi accertati per i quali è scattato l’allarme dei familiari sul mancato rientro. Delle varie automobili parcheggiate nei pressi della salita in Marmolada, fino a ieri sera ne erano rimaste quattro – con targhe tedesche, della Repubblica Ceca e ungheresi – di cui non è stato possibile rintracciare i proprietari.
Domenica, subito dopo il crollo del seracco di ghiaccio lungo lungo oltre 200 metri e largo 60, sono intervenuti sul posto 50 operatori del Soccorso alpino trentino e veneto, con unità cinofile, oltre ai reparti di soccorso dei vigili del fuoco, polizia e carabinieri. Ma la situazione si è presentata subito troppo pericolosa e le operazioni sono state interrotte lasciando il campo ai soli sorvoli dall’alto con elicotteri dotati dei sistemi di rilevamento Arva e Recco. Immediata l’ordinanza congiunta di divieto d’accesso all’intera area emanata dai comuni interessati sui due versanti, trentino e veneto, Canazei e Rocca Pietore.
Draghi ha ringraziato i coraggiosi soccorritori che hanno operato nelle prime ore in condizioni pericolosissime, e malgrado si assottiglino le speranze di trovare qualche alpinista ancora in vita, il governatore veneto Luca Zaia ha assicurato che le ricerche andranno «avanti fino all’estremo». Mentre il presidente della Società alpinisti tridentini, Anna Facchini, ha lanciato un appello affinché non si continui a rinviare «gli impegni che ci dobbiamo assumere contro il cambiamento climatico: Agenda 2020, Agenda 2030 e adesso siamo già verso l’orizzonte dell’Agenda 2050. La montagna non si può chiudere – ha detto in risposta a chi già chiede il divieto assoluto di salire sui ghiacciai – vanno cambiati i modelli di sviluppo».
«INVEROSIMILE» l’ipotetico divieto di frequentare in estate le zone nevose d’alta montagna, anche per il glaciologo Riccardo Scotti, responsabile del Servizio glaciologico lombardo, che al manifesto spiega come mai nessuno avrebbe mai potuto prevedere una tragedia di questo tipo in Marmolada. «Il ghiacciaio era monitorato in termini di bilancio di massa e variazioni superficiali, non lo era nell’ottica di una dinamica catastrofica proprio perché non c’era alcun segnale premonitore che lasciasse immaginare un evento di questo genere». Spiega Scotti che ad essere monitorati attraverso carotaggi e operazioni molto complesse, con radar da terra e altre tecniche di «studio molto costose, impegnative e assolutamente non ripetibili su larga scala», sono solo «alcune singoli porzioni di ghiacciai alpini». Per esempio in Val d’Aosta, nei pressi di Courmayeur, il Planpicieux della Val Ferret, o il Pra Sec del Grandes Jorasses, dove il rischio crolli è molto alto.
COSÌ NON ERA in Marmolada dove «il monitoraggio si limitava alla variazione della massa, perché non c’era nessuna deformazione evidente». Tra l’altro, dinamiche simili, spiega ancora il glaciologo, «sono molto rare» nelle Alpi. «Questo crollo sarà oggetto di studi nei prossimi anni – prevede Scotti -. Qualcosa di simile era già accaduto nel 1989 sul Monviso, al Coolidge, fortunatamente di notte quando non c’era nessuno. Lo scioglimento dei ghiacci sulle Alpi è in atto da 150 anni a questa parte ma negli ultimi decenni sicuramente ha subito un’accelerazione, raddoppiando o in alcuni casi triplicando la perdita di spessore. Nell’ultimo secolo il ghiacciaio della Marmolada ha perso un centinaio di metri di spessore e l’accumulo di neve superficiale. Proprio per questo dava l’impressione di non essere pericoloso. Inoltre, in alta quota di solito non si formano masse d’acqua così abbondanti come quelle che, stando alle prime informazioni, avrebbero contribuito al distacco del ghiaccio dal permafrost». A questo punto sembra perciò necessario cambiare anche il modo di studiare i ghiacciai.