Commemorato il centenario del discorso del deputato socialista poi assassinato dal regime Presente il presidente della Repubblica Mattarella. Assenti molti parlamentari del centrodestra
Così su La Stampa
Fabio Martini
Un evento insolito per questi tempi così faziosi. Per ricordare Giacomo Matteotti, l’aula di Montecitorio è riuscita ad ospitare una cerimonia a ciglio asciutto e “storicamente corretta”: una seduta speciale, ad inviti, chiamata ad onorare il discorso pronunciato il 30 maggio di cento anni fa dal deputato socialista poi ucciso dalla “Ceka”, la polizia politica di Mussolini. A quello che resta il più coraggioso discorso mai pronunciato nel Parlamento italiano la Camera ha dedicato settantacinque minuti solenni. L’incipit è affidato alla Banda interforze, che suona l’Inno di Mameli ma anche quello europeo alla Gioia; l’inquadramento storico, chirurgico sulle responsabilità del Duce, spetta al più autorevole studioso italiano del fascismo, Emilio Gentile; il Capo dello Stato non parla ma è accolto dal battimani più caldo della mattinata; l’attore Alessandro Preziosi, proprio dallo scranno che fu di Matteotti, rilegge e recita i passaggi cruciali del discorso sui brogli fascisti.
E tuttavia gli occhi di tutti guardano costantemente al centro dell’emiciclo, dove è seduta Giorgia Meloni. Giacca bianca e pantaloni neri, la prima presidente del Consiglio di destra nella storia della Repubblica ha applaudito tutti i passaggi degli oratori ufficiali, anche quelli più scabrosi per una leader politica che viene dalla storia del Movimento sociale. Alle 12,17 la cerimonia finisce, Meloni si congeda dal Capo dello Stato e prima di uscire dall’aula va a salutare l’ex presidente della Camera Luciano Violante, protagonista di un discorso, segnato da uno sguardo prevalente al presente e all’indecisionismo da superare, che deve essere piaciuto alla Presidente del Consiglio. Meloni non ha tempo per salutare il professor Gentile, che poco prima aveva scandito il concetto chiave di tutta la cerimonia: «A cento anni dall’assassinio di Giacomo Matteotti si conoscono esecutori, mandanti e moventi». Mentre Gentile pronunciava quelle parole, chiamando in causa Benito Mussolini, il presidente del Senato Ignazio La Russa aveva scosso leggermente la testa, ma cosa abbia pensato in cuor suo Meloni, non è dato sapere.
Il suo pensiero, stavolta, la Presidente del Consiglio lo ha affidato ad un comunicato scritto, fatto diffondere a cerimonia chiusa: «Il 30 maggio 1924, Giacomo Matteotti difese la libertà politica, incarnata nella rappresentanza parlamentare e in libere elezioni. Oggi siamo qui a commemorare un uomo libero e coraggioso ucciso da squadristi fascisti per le sue idee. Onorare il suo ricordo è fondamentale per ricordarci ogni giorno il valore della libertà di parola e di pensiero contro chi vorrebbe arrogarsi il diritto di stabilire cosa è consentito dire e pensare e cosa no».
Concetti importanti, ma che comprendono anche la parola chiave per cogliere l’ultima resistenza concettuale della presidente del Consiglio: per lei Matteotti fu «ucciso da squadristi fascisti». Dunque, eliminato non per ordine del Duce, ma da un gruppo di “teste calde”: è la teoria sulla quale si è attestata dal 1946 in poi la storiografia di cultura missina. Potrebbe apparire una disquisizione da filologi incalliti ma dentro c’è un passaggio chiave. Dal 1946 in poi la narrazione della destra italiana è sempre stata attraversata da un’idea: il fascismo seppe ricostruire lo Stato nazionale e la sua caduta fu determinata da una serie di gravi errori concentrati nella fase finale del regime: le leggi razziali e l’ingresso in guerra a fianco di Hitler. Ovviamente la Presidente del Consiglio non aveva alcun obbligo “formale” di esprimere un giudizio compiuto sul ventennio ma l’espressione da lei usata lascia aperta una questione cruciale: la resistenza della destra italiana a convergere su quanto ripetono storici di ogni tendenza, che non ci fu nel fascismo un prima “buono” e un dopo “cattivo” e proprio l’assassinio di Giacomo Matteotti fu il Rubicone, il vero punto di non ritorno.
Per la verità tutta la cerimonia (alla presenza di Elly Schlein e di sparutissimi parlamentari di centro-destra) è stata segnata da un costante rispetto storico e politico verso la figura dell’antifascista Matteotti e questo grazie alla scaletta decisa dal Presidente della Camera Lorenzo Fontana. È stato lui ad aprire la seduta, definendo Matteotti «uno dei padri della nostra democrazia» e annunciando che «a perenne ricordo del suo sacrificio», lo scranno dal quale denunciò le violenze fasciste, «non sarà più assegnato ad alcun deputato». Un filmato di Rai Cultura, un breve ricordo di Bruno Vespa sul rapporto umano tra Matteotti e la moglie Velia hanno preceduto il discorso più importante, quello dello storico Emilio Gentile che ha definito la natura del fascismo come «partito armato» ben prima del delitto Matteotti ma anche quella del deputato socialista, per il quale la libertà veniva prima di tutto, a differenza dei comunisti, da lui visti come «complici involontari del fascismo».
Una cerimonia “storicamente corretta” e anche per questo priva di un particolare pathos che invece si è sprigionato alla fine, dopo il discorso di Matteotti, letto e recitato dall’attore Alessandro Preziosi. Un battimani liberatorio con tutta l’aula in piedi.