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Il Medio Oriente attraversa una fase di forte instabilità, in cui conflitti aperti, tensioni latenti e manovre diplomatiche si intrecciano in modo sempre più stretto. In questo quadro si colloca la visita di Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti, scandita da incontri di alto livello che assumono un valore politico ben più ampio della consueta cooperazione bilaterale. Il confronto con Donald Trump rappresenta infatti un passaggio chiave per ridefinire i margini di azione israeliani in una regione attraversata da equilibri fragili e conflitti irrisolti.
L’attenzione si concentra in particolare sul Libano, dove l’attesa è carica di apprensione. L’eventualità che Washington possa avallare una linea più dura nei confronti di Hezbollah e del fronte settentrionale pesa su un paese già stremato da crisi economica, paralisi istituzionale e tensioni sociali. Il fragile cessate il fuoco e il dibattito interno sul monopolio delle armi mostrano come il Libano sia diventato uno spazio di pressione incrociata, esposto alle dinamiche regionali e alle rivalità tra potenze. Ogni segnale proveniente dagli Stati Uniti viene interpretato come un possibile cambio di fase.
Ma la posta in gioco va oltre il confine libanese. I colloqui americani di Netanyahu si inseriscono in una più ampia ridefinizione degli equilibri mediorientali, dove diplomazia e forza militare procedono in parallelo. In questo quadro si colloca anche l’ipotesi di un riconoscimento israeliano del Somaliland, mossa che ha agitato le monarchie del Golfo. Un gesto apparentemente periferico, ma in realtà carico di implicazioni strategiche, capace di incidere sugli equilibri nel Corno d’Africa, sulle rotte commerciali e sui rapporti tra Israele, mondo arabo e Africa orientale.
La Siria resta intanto uno dei nodi più instabili della regione. A distanza di tempo dal consolidamento del potere centrale, il paese continua a essere attraversato da violenze, tensioni settarie e tentativi di destabilizzazione. Le proteste, gli attacchi e le manovre sotterranee mostrano quanto la stabilità resti fragile e quanto il territorio siriano continui a essere un campo di competizione tra attori regionali e internazionali, nonostante i tentativi di normalizzazione diplomatica.
Anche l’Arabia Saudita sembra muoversi verso una postura più assertiva, privilegiando l’opzione militare nel confronto con i gruppi yemeniti considerati ostili. Questa scelta segnala un irrigidimento strategico che convive, non senza contraddizioni, con i processi di dialogo regionale avviati negli ultimi anni. La coesistenza di aperture diplomatiche e ritorno alla forza armata restituisce l’immagine di un Medio Oriente attraversato da linee di frattura non ricomposte.
Sul fronte palestinese, la situazione in Cisgiordania continua a deteriorarsi. L’espansione dei coloni, la protezione politica di cui godono e la crescente pressione militare contribuiscono a un clima di violenza quotidiana e di insicurezza strutturale. Non si tratta di un conflitto dichiarato, ma di una tensione permanente che erode le basi di qualsiasi prospettiva politica e alimenta radicalizzazione e sfiducia.
In questo scenario segnato da conflitti e rivalità, il Libano resta anche uno spazio simbolico, attraversato da memorie traumatiche e da una forte carica culturale. Le sue ferite raccontano una storia di sopravvivenza e contraddizioni che continua a riflettere, in forma concentrata, le lacerazioni dell’intera regione. Non a caso, la prevista visita papale nel paese viene presentata come un messaggio di pace e di speranza: un gesto soprattutto morale, che tenta di riaprire uno spazio di parola e di ascolto là dove dominano logiche di forza.
Nel loro insieme, questi elementi restituiscono l’immagine di un Medio Oriente in equilibrio instabile, dove ogni mossa diplomatica — un incontro a Washington, un riconoscimento controverso, un’operazione militare o una presa di posizione simbolica — produce effetti a catena. La visita di Netanyahu negli Stati Uniti diventa così il punto di condensazione di dinamiche più ampie: la fragilità del Libano, la crisi siriana, le tensioni nel Golfo, la questione palestinese e la difficoltà, sempre più evidente, di costruire un ordine regionale fondato su regole condivise piuttosto che sulla forza.





