A Bruxelles sfrecciano da un incontro a un altro per decidere il poker dei nuovi vertici istituzionali europei ma il problema principale è Giorgia Meloni. Sulla permanenza di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione obiettano in pochi.
Purché non la voti anche il partito della premier italiana. I socialisti sono tassativi: «Il nostro voto per il presidente, chiunque sia, dipende da questo». Il cancelliere Scholz è altrettanto drastico: «È chiaro che non dovrebbe esserci alcun sostegno che si basi su partiti di destra». I Verdi, il cui rincalzo è necessario perché i 40 voti di margine che vantano Popolari, Socialisti e Liberali non danno alcuna sicurezza in quella festa continentale dei franchi tiratori che è Strasburgo, intonano il medesimo motivo: «Disponibili però mai con una partecipazione formale di FdI».
La Commissione europea ha appena censurato le manifestazioni di aperto neofascismo dei giovani di FdI definendola «inappropriata» e «moralmente sbagliata», ed è una freccia in più nella faretra di chi insiste perché il cordone sanitario tagli fuori anche la premier italiana.
A Meloni le orecchie devono fischiare come sirene impazzite ma fa finta di niente. Incontra l’ungherese Orbán, poi il leader del Pis polacco Morawiecki, entrambi considerati quasi degli “intoccabili” a Bruxelles. Parlano un po’ delle prossime cariche e molto degli assetti delle destre europee divise ma senza concludere molto né su un fronte né sull’altro. Poco prima di sedersi a tavola la premier di Roma fa il punto con il presidente uscente del Consiglio europeo Charles Michel ma per una volta s’imbavaglia da sola e non si lascia sfuggire neppure un commento al volo. Percepisce la delicatezza del momento.
A parlare ci pensa il suo vicepremier, in veste di alto esponente del Ppe, al termine del vertice del medesimo partito, il più forte che ci sia a Strasburgo. Antonio Tajani va giù netto, mettendo da parte ogni ambiguità diplomatica: «Non si può chiudere Ecr fuori dalla porta. Il Parlamento non può chiudersi in una maggioranza a tre. Ai Verdi non si possono fare concessioni: sui cambiamenti climatici serve una politica non fondamentalista ma pragmatica». Il leader di Forza Italia parla come numero due del governo italiano, infatti batte i pugni: «All’Italia spetta una vicepresidenza forte e un commissario non di secondo livello». Ma, sia pur non ufficialmente, quella è anche la posizione del Ppe e a maggior ragione della candidata.
Lo scandalo del giorno è la denuncia del sito Politico.eu secondo cui Ursula von der Leyen avrebbe ritardato l’approvazione di un report sullo stato della libertà di stampa non precisamente encomiastico nei confronti dell’Italia proprio per non urtare la supporter di Roma appena travestita. La delegazione del Pd a Strasburgo chiede «chiarimenti». «La sola ipotesi di un insabbiamento del report critico nei confronti di Meloni sarebbe gravissima e intollerabile», tuona la presidente della commissione di vigilanza Rai, la 5 Stelle Floridia.
Della trentina di voti che possono arrivarle da alcune forze di Ecr von der Leyen ha bisogno come rete di protezione nell’arena di Strasburgo. Ma non c’è solo il pallottoliere della candidata: il Ppe, in un’Europa che tira a destra, non vuole sbilanciarsi sul versante opposto e tanto meno finire ostaggio dei socialisti e dei verdi.
Quando la cena inizia, con due ore di ritardo, il caso italiano è ancora tutto da definirsi e ci vorrà ancora tutto il tempo che manca prima del voto del Parlamento, se tutto va bene il 18 luglio. Perché impedire a Giorgia Meloni di votare per la presidenza, salvo poi chiamarsi fuori da ogni fantomatica maggioranza politica con reciproca soddisfazione sua e dei socialisti, è impossibile. L’unica strada è metterla alle corde nelle trattative, che però finiranno solo in autunno, sul commissario italiano, negando un ruolo di rilievo come sarebbe la Difesa scorporata dagli Esteri per Elisabetta Belloni o la Coesione per Cingolani o Fitto, Pnrr permettendo, o forse persino per l’ex ministro dell’Economia di Draghi, Daniele Franco.
Ma su quel fronte si intrecceranno considerazioni diverse: negare vicepresidenza e commissario importante al terzo Paese dell’Unione sarebbe uno sgarbo difficilmente giustificabile comunque.
La vicenda finirà probabilmente per intrecciarsi con l’eterno tormentone della mancata ratifica della riforma del Mes.
L’Europa, passati i sei mesi necessari per rivedere il no italiano, è pronta a tornare alla carica. I venti di crisi supportano la richiesta rivolta a Roma di ripensarci e firmare. L’occasione sembra fatta apposta per mettere alla prova la sincerità dell’europeismo della presidente del consiglio, costringendola a scegliere tra passare per sovranista da emarginare per le famiglie politiche storiche della Ue oppure da rinnegata di cui non fidarsi nella destra europea che presto dovrà mettere mano a un riassetto complessivo. Ma per ora Meloni vuole giocarsi la partita nei dieci giorni di sospensione.