Giorgia Meloni è cresciuta in un ambiente politico che ha sempre attribuito al capo un ruolo ancora più importante di quello che il leader ha naturalmente in qualunque partito. Il capo, nell’educazione sentimentale che ha formato in profondità la presidente del Consiglio, è coraggioso per definizione, indica la direzione, chiede e ottiene disciplina dai militanti, argina le spinte all’insubordinazione e all’entropia, promuove e rimuove con criterio. Da quando Meloni è entrata a Palazzo Chigi si è sforzata di restituire della sua presidenza una immagine in linea con i canoni della sua tradizione, che non a caso prevede il maschile nella declinazione che lei ritiene appropriata. Ma più Meloni si sforza di dimostrare che ha in pugno la situazione, che sa cosa fare e come, che avanza senza indietreggiare, più la realtà si incarica di smentirla e grattar via la vernice dorata della retorica: un passo avanti e due indietro, un annuncio e due retromarce. La gestione della manovra è un oggettivo disastro, una prova di dilettantismo e improvvisazione che non ha eguali nemmeno nel recente passato, pur ricco di esperimenti innovativi. Errori, ritardi, pasticci di ogni genere e gravità. Un provvedimento uscito male dal governo e masticato ancor peggio dal Parlamento, dove la maggioranza pare impegnata a dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio quanto menzognero fosse lo slogan della campagna elettorale della neo-premier: “Pronti”.
L’ultimo inciampo è clamoroso: annulla persino uno dei provvedimenti più identitari — e discutibili — ovvero quella modifica al reddito di cittadinanza che cancellava il requisito della congruità del lavoro da accettare per non perdere il diritto all’assegno mensile. Norma scritta male, tutto da rifare, per ora resta il criterio della congruità.
C’è sempre uno scarto decisivo tra la rappresentazione che Meloni insegue di sé stessa e la sostanza delle cose. Esattamente lo stesso che passa tra le sentite lacrime versate poche giorni fa davanti alla comunità ebraica romana nel ricordare «l’ignominia delle leggi razziali» e le afasie nella condanna piena e senza ambiguità del regime che quelle leggi volle e applicò, o la contraddizione di considerare in cima al pantheon Giorgio Almirante, ex segretario del Movimento sociale, e potrebbe già bastare, ma soprattutto, nel caso specifico, segretario di redazione dell’infame periodico fascista La difesa della razza.
La distanza tra la propaganda e i fatti è tale che Meloni — esordiente come statista ma esperta eintelligente come politica — mostra un ancoraggio alla realtà solo quando lascia trasparire il comprensibile stress per la situazione nella quale la vittoria elettorale l’ha precipitata.
Ieri, ospite di Porta a Porta, ha detto che «non ha paura di niente», retaggio appunto della sua idea atavica di capo, prima di aggiungere un più umano e sincero «ho paura solo di deludere». Persino i piccoli cedimenti fisici, come quello che l’ha tenuta lontana dal vertice dei Paesi euromediterranei ad Alicante e che ha alimentato letture maliziose, appaiono fugaci momenti di verità rispetto alla grottesca narrazione del governo muscolare, patriottico e inflessibile che combatte contro forze occulte e potenti che ne ostacolerebbero i piani: «So quali sono i poteri con i quali ho a che fare, le incrostazioni, è un lavoro difficilissimo, incontreremo trappole nel percorso ma non ho niente da perdere», ha spiegato Meloni a Bruno Vespa, e a prendere sul serio queste affermazioni intinte nel vecchio complesso catacombale dei missini ci sarebbe da pensare a quanto devono divertirsi questi presunti poteri forti, mentre assistono allo spettacolo di un governo che sembra in grado di risparmiare loro la fatica della destabilizzazione grazie a un costante ed efficacissimo autosabotaggio.