Èun’altra volta l’8 marzo, il primo forse di quella che somiglia sempre più a nuova era. Il grido di protesta delle donne si leva, quest’anno, tra venti di guerra che soffiano impetuosi, in Europa, in Medio Oriente, e altrove nel mondo. La voce femminista, che parla di libertà e diritti universali, è sovrastata dal diluvio comunicativo machista, suprematista, colonialista di personaggi come Donald Trump, JD Vance, Elon Musk.

La lotta per la vita dei soggetti vulnerabili si scontra con il moltiplicarsi di muri e atti repressivi, ovunque le destre salgono al potere e dove le vecchie forze democratiche soccombono all’agenda e alla grammatica dei nuovi autoritarismi.

Eppure, e proprio per questo, lo sguardo dei femminismi sulla politica degli Stati, degli organismi sovranazionali, delle organizzazioni internazionali, sembra oggi più necessario che mai. Serve lo sguardo di donne e soggetti non conformi, di soggetti «eccentrici», capaci di elaborare una critica radicale del presente, dei discorsi egemoni, delle forme culturali dominanti.

Questo esercizio di pensiero dissonante è urgente su due versanti: quello internazionale, in cui la forza è tornata a dettare apertamente legge nella relazione tra Stati a vocazione imperialista e resto del mondo, inducendo anche l’Unione europea a inseguire le altre potenze sul terreno militare; e quello interno alle democrazie, dove la torsione illiberale minaccia di azzerare le tutele giuridiche dei gruppi a rischio di discriminazione, mentre l’alleanza tra governi conservatori e potere del capitale moltiplica le forme di sfruttamento. I due versanti, del resto, sono profondamente connessi: la militarizzazione del linguaggio e della politica degli Stati spesso riflette, e sempre produce, un ordine sociale avverso ai progetti di giustizia sociale.

Il femminismo ha saputo dire una parola “altra” sulla guerra, fin dal tempo dalle mobilitazioni delle suffragiste. Si pensi a quando nel 1915, centodieci anni fa, nell’infuriare della prima guerra mondiale, oltre mille donne si ritrovarono all’Aja per il primo Congresso internazionale delle donne per la pace, per «stringersi le mani da sorelle, al di là della guerra delle nazioni».

Allora, però, le donne parlavano da outsider, da escluse dalle decisioni politiche. Oggi la situazione è mutata. Se lo scontro tra Trump e Zelensky nello Studio Ovale ha messo in scena un conflitto per la supremazia tutto al maschile, al di qua dell’Atlantico però le donne, Ursula von der Leyen in testa, sono indiscutibili protagoniste della politica di riarmo.

È quindi tempo per il pensiero e la politica femminista di affinare le armi della critica e gli strumenti di lotta, per rintracciare la radice antica del dominio patriarcale dentro la dinamica e la retorica dello scontro armato, svelando la dimensione di genere di ogni disegno nazionalistico di potenza.

Questo significa anche, sul piano della politica interna, denunciare la deriva illiberale in corso come attacco all’uguaglianza democratica, come progetto di difesa e promozione di gerarchie di genere, sessuali, socio-economiche, razzali. È questo l’obiettivo che muove le offensive contro il “gender”, la cultura “woke”, le politiche di inclusione, che accomunano le destre d’Europa e d’America.

In Italia, l’insicurezza vissuta delle donne cresce sotto il primo governo guidato da una donna. Un paradosso che ci costringe non solo a riaffermare la differenza tra “donne in politica” e “politica per le donne”, ma anche a rilevare come il conservatorismo familista di questa destra blocchi ogni avanzamento a livello economico e sociale. I dati emersi dal rapporto Cnel-Istat sul lavoro femminile sono lo specchio di un fallimento.

In occasione di questo 8 marzo il governo Meloni presenta un disegno di legge per l’introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne. Un atto che potrebbe contenere risvolti positivi nella lotta a un problema endemico, ma che difficilmente basterà a segnare un’inversione di rotta. Intanto, perché insiste ancora una volta sulla sola repressione, ignorando le domande di intervento sul versante della prevenzione attraverso l’educazione. Inoltre, perché non muta il segno di un governo che cerca e manifesta affinità con i progetti di potere muscolari e machisti di Trump, Orbán o Milei.

Infine, un ddl non basterà perché quello di cui c’è bisogno oggi non è (solo) un elenco di singole misure, di politiche, ma un approccio femminista alla politica nella sua interezza.

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