ALESSANDRO BARBERA
«Noi giochiamo in Champions League! Magari non vinciamo ma è una bella soddisfazione». Transatlantico di Montecitorio, Roma, ieri. Mentre Giorgia Meloni parte per il primo Consiglio europeo da premier, a Giancarlo Giorgetti tocca tenere a bada il Parlamento. Dipendesse dai partiti, al ministro calciofilo occorrerebbero altri miliardi. Basti qui citare le richieste più costose: per i pensionati al minimo, quelli costretti al taglio della rivalutazione, la proroga dei sussidi all’edilizia, nonostante quasi cento miliardi spesi. Coi cronisti il leghista si lascia andare all’euforia per essere riuscito fin qui a quadrare il cerchio: di qua Matteo Salvini, di là l’Europa matrigna. Nonostante le molte osservazioni la Finanziaria del governo Meloni – la prima del centrodestra dal 2011 – non ha fatto la fine di quella Lega-Cinque Stelle nel 2019, riscritta da Giuseppe Conte dopo un durissimo negoziato con Bruxelles. Eppure per far calare di nuovo il gelo con la Commissione europea è bastato pochissimo. Accade quando in aula Giorgetti risponde ad un’interrogazione scritta del centrista Luigi Marattin. Oggetto: la ratifica alla riforma del Fondo salva-Stati. «L’impianto attuale del Trattato appare non tenere conto del diverso contesto di riferimento e appare opportuno che siano valutate modifiche». Il ministro legge un testo preparato dai tecnici, vagheggia la necessità di «un ampio dibattito parlamentare», la sintesi è chiara: l’Italia non è intenzionata a firmare.
La notizia rimbalza a Bruxelles con un certo sconcerto. Una fonte comunitaria, sotto la garanzia dell’anonimato, la mette così: «Tutti conosciamo le difficoltà politiche in cui opera il governo. Ma questo è un affronto verso chi quella riforma l’ha approvata. Sarà un grosso problema». Che l’era dell’austerity sia lontana, e con essa le istituzioni che la rappresentano, è un fatto. Ciò che la fonte europea contesta a Giorgetti è la leggerezza con cui il governo Meloni ha deciso di venir meno a un impegno sottoscritto da tutti e diciannove i Paesi della moneta unica.
La vicenda non è nuova e si trascina da anni. Il primo a prender tempo sulla riforma dell’istituzione che dieci anni fa impose dure ristrutturazioni a Paesi come Grecia, Irlanda e Portogallo è il ministro del Tesoro del governo Pd-Cinque Stelle, Roberto Gualtieri. Ma l’opposizione ideologica di Lega e grillini ha costretto alla melina persino Mario Draghi. Ma durante i venti mesi del governo di quasi unità nazionale e fino a pochi giorni fa l’Italia aveva una scusa che ora non c’è più: l’attesa per il giudizio della Corte costituzionale tedesca, alla quale si erano appellati i liberali tedeschi nel tentativo di fermare la ratifica di Berlino. Nel frattempo il giudizio (positivo) è arrivato, e l’Italia è l’unico Paese dell’area euro che non ha firmato quella riforma. Se il vertice in corso a Bruxelles non fosse dedicato a temi diversi, la faccenda avrebbe creato imbarazzo a Giorgia Meloni. L’uscita del ministro leghista conferma però la determinazione della premier ad affrontare di petto le questioni che più di tutte possono far male agli interessi italiani, come i conti pubblici o la gestione dei migranti. Meloni è convinta che la legittimazione elettorale le permetterà di ottenere ciò che nemmeno riusciva al tecnico Draghi.
Fin qui la linea prudente sui conti pubblici è stato il suo vero scudo dalle critiche. Per l’aumento al tetto del contante, a quello per l’uso delle carte di pagamento, la tassa piatta concessa ai lavoratori autonomi e i ritardi sul Recovery plan. La scarsa disponibilità con cui ieri Giorgetti si è seduto al tavolo della maggioranza per discutere le modifiche alla Finanziaria conferma quella linea. Ma la mancata ratifica del fondo salva-Stati alimenterà i pregiudizi antitaliani che serpeggiano nei palazzi europei. Resta da capire se la Meloni li attenderà al varco o invece si troverà costretta ancora una volta a scendere a patti.
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