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La fotografia del Global Footprint Network dimostra come il degrado ambientale non sia responsabilità di tutti, ma solo di chi vive al di sopra di ciò che gli spetta. E che ora ha il compito di trovare risposte sostenibili per tutti
L’istituto internazionale Global Footprint Network ci informa che da oggi, 2 agosto, l’umanità entra in zona negativa per quanto riguarda la capacità rigenerativa del sistema vegetale. La giornata di oggi è anche detta giorno del sorpasso, Overshoot day in inglese, ad indicare che i nostri consumi hanno raggiunto il limite massimo di prestazioni che il sistema vegetale è in grado di garantirci per l’anno che stiamo trascorrendo. Una situazione drammatica soprattutto se teniamo presente che abbiamo bisogno del sistema vegetale non solo per garantirci cibo, vestiario, alloggio, ma anche per sbarazzarci dell’anidride carbonica. In effetti il 60% della nostra richiesta di suolo fertile è dovuto alla necessità di liberarci di questo gas che si sprigiona ogni volta che bruciamo combustibili fossili. Evenienza che ricorre non solo quando andiamo in auto, ma ogni volta che utilizziamo energia elettrica se proviene da una centrale termica. Ed è proprio l’accumulo di anidride carbonica in atmosfera, con tutti i suoi effetti sul clima, a dirci che da vari decenni l’umanità ha un livello di consumi che oltrepassa la capacità di rigenerazione della natura. L’Overshoot day prende origine dall’impronta ecologica, l’indicatore che segnala la quantità di fertile necessaria a sostenere i nostri consumi. Se prendiamo la terra fertile totale e la dividiamo per gli abitanti del Pianeta, ormai 8 miliardi, scopriamo che ogni abitante del globo ha diritto a 1,6 ettari di terra fertile. Questa è l’impronta ecologica sostenibile, ossia la quantità di terra fertile che ognuno di noi può utilizzare senza provocare squilibri al pianeta. In realtà i consumi dell’umanità sono tali da richiederne 2,8 ettari a testa. Quasi il doppio della quantità disponibile. Ma se possibile la realtà è ancora peggiore, perché le medie non mai il vero quadro della situazione. Analizzando le elaborazioni
effettuate dalla Footprint Data Foundation nel 2022, scopriamo che il mondo è praticamente diviso a metà: un 50% ha un’impronta pro capite al di sopra di quella sostenibile, l’altro 50% al di sotto. Quelli perfettamente in linea con la sostenibilità non fanno numero, rappresentando appena lo 0,5% della popolazione mondiale. Fra le nazioni con l’impronta più bassa troviamo l’Afghanistan (0,5 ettari a testa), Haiti (0,6), Malawi (0,9) India (1,2). Al lato opposto, l’impronta dei qatarini è di 14,3 ettari, mentre quella dei lussemburghesi è 13, degli statunitensi 8,1, degli australiani 7,9, degli italiani 4,3.
Questa fotografia ci mostra chiaramente che il degrado ambientale che abbiamo creato non è responsabilità di tutta l’umanità, ma solo della metà che pretende di vivere al di sopra di ciò che le spetta. Questa parte di umanità ha creato il problema e questa parte deve risolverlo, non solo facendo tutto ciò che serve in termini di cambiamento tecnologico e riduzione dei propri consumi per riportare la propria impronta nei limiti della sostenibilità, ma anche fornendo all’altra metà tutto l’aiuto che serve per colmare le lacune che le impediscono di vivere in condizioni di dignità umana. Basti dire che circa un miliardo di persone non dispone ancora di nessuna forma di corrente elettrica, che due miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, che 3,6 miliardi di esseri umani mancano di servizi igienici. E la lista potrebbe continuare con l’impossibilità di accedere alle cure mediche ed ospedaliere, con l’impossibilità di istruirsi, con l’impossibilità di muoversi con un mezzo anche solo localmente. Forme di povertà ampiamente conosciute e che formalmente abbiamo dichiarato di voler sconfiggere tramite il perseguimento dell’agenda 2030 che pone 17 obiettivi di sviluppo sostenibile per tutti, fra cui cibo, acqua, servizi igienici, energia sostenibile, diritti alle cure e all’istruzione, diritto al lavoro e molto altro. Obiettivi, però, che potranno essere raggiunti solo attraverso uno sforzo congiunto di tutta l’umanità, perché le risorse da mettere in campo sono davvero notevoli. Secondo il Fondo Monetario Internazionale i 57 Paesi più poveri della Terra dovrebbero spendere ogni anno tra i 300 e i 500 miliardi di dollari per risolvere, entro il 2030, i problemi più gravi della propria podanno
polazione. Ma la cifra sale a 1.000 miliardi di dollari (all’incirca l’1% del prodotto lordo mondiale), se ci aggiungiamo gli interventi necessari a fronteggiare i cambiamenti climatici, in particolare gli investimenti per la transizione energetica e le opere di adattamento climatico. Una cifra totalmente fuori dalla loro portata che potranno coprire solo grazie alla solidarietà internazionale. Ma il mondo sembra più interessato ad armarsi che a migliorare le sorti dei poveri. Nel 2022 la spesa militare complessiva ha oltrepassato i 2.200 miliardi di dollari, mentre quella per il sostegno ai paesi più poveri si è fermata a 160 miliardi di dollari, per metà forniti sotto forma di prestiti. Non certo una buona notizia per Paesi già schiacciati dai debiti e che arrivano a destinare al servizio del debito fino al 60% delle proprie entrate fiscali.
Nella nostra parte di mondo la parola “riduzione” non vogliamo neanche sentirla pronunciare. Eppure un’economia meno orientata alle cose e più indirizzata ai servizi alla persona, è l’unica strada per coniugare sostenibilità con equità. Con l’aggiunta della felicità considerato che una buona vita di relazione è l’ingrediente base della soddisfazione umana. In cuor nostro sappiamo che questa è la strada da battere, ma la rifuggiamo per paura di non saper gestire un’economia fondata sulla solidarietà e di perdere posti di lavoro in un contesto di minor consumo. Ma in via transitoria potremmo utilizzare il nostro enorme potenziale produttivo piuttosto che per continuare ad accrescere i nostri consumi per dotare i paesi più poveri degli investimenti necessari a migliorare le loro condizioni di vita. Un modo per continuare a garantire posti di lavoro, mentre cominciamo a costruire un futuro più equo, più sostenibile, più umano, non più afflitto da miserie e migrazioni forzate.