Somalia faces worst famine in half a century, UN warns
19 Ottobre 2022La marea delle consulenze per le riforme dei Pnrr europei
19 Ottobre 2022Nel suo primo discorso da presidente del Senato Ignazio La Russa ha raccontato la storia del postfascismo aggirando colpe e responsabilità. Un dispositivo creato in questi anni anche da personaggi provenienti da sinistra
Il primo discorso di Ignazio La Russa come presidente del Senato è stato uno dei punti più bassi della storia repubblicana e ha dato forma a quello che in questi giorni definiamo con una parola ancora plastica postfascismo.
Una delle ragioni per cui non c’è ancora una lettura adeguata dell’ideologia neonazionalista di Fratelli d’Italia è che ancora si pensa che il neofascismo sia e sia stato un movimento nostalgico. In realtà quasi nulla del neofascismo è nostalgico, contenendo il fascismo stesso di matrice saloina una retorica rivoluzionaria. Il fatto che non esista un testo storico di riferimento sul neofascismo rende sconosciuta a molti la storia del fascismo italiano che inizia nel 1943, quella degli anni Settanta, quella che si rimaschera dopo la fine della prima repubblica, quella del nuovo secolo.
Chi ha riabilitato il fascismo
Il revisionismo sulla storia repubblicana antifascista compiuto da Ignazio La Russa non è però solo opera della sua militanza politica, è un portato che gli è stato regalato da politici e intellettuali democratici: il primo – citato esplicitamente – è Luciano Violante. Il suo discorso di insediamento del 1996 come presidente della Camera va riletto parola per parola. Ci sono passaggi talmente evocativi, ed evocati esplicitamente da La Russa ieri, che i due discorsi sembrano l’alfa e l’omega di un lungo processo di abiura dell’antifascismo come religione civile della Repubblica.
Mi chiedo – dicevo – cosa debba fare quest’Italia perché la lotta di liberazione dal nazifascismo diventi davvero un valore nazionale e generale, e perché si possa quindi uscire positivamente dalle lacerazioni di ieri. Mi chiedo se l’Italia di oggi – e quindi noi tutti – non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensí perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà. Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo piú prospero e piú sereno. Dopo, poi, all’interno di quel sistema comunemente condiviso, potranno esservi tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni.
Cinque anni prima, nel 1991, era uscito il più bel libro sulla Resistenza, Una guerra civile di Claudio Pavone, che aveva riflettuto in modo profondo sulle ragioni morali della violenza dolorosa, giusta, della lotta partigiana. Violante si impelagava in una vile sfida speculare. A distanza di 26 anni possiamo dire che la riflessione storica di Pavone non ha avuto e non ha il riconoscimento pubblico che meriterebbe, mentre Luciano Violante, parlamentare e dirigente del Pci, Pds, Ds, oggi a capo della Fondazione Leonardo (l’azienda italiana attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza) è riuscito in questa operazione spericolata di riabilitazione del nazifascismo in chiave generazionale, morale, culturale e in definitiva politica e istituzionale. Che questo tentativo abbia oggi la sua definitiva consacrazione grazie ai postfascisti al governo non può essere ascritto a un’eterogenesi dei fini; ci sono stati politici che nella veste di uomini di partito o di intellettuali pubblici hanno continuato il lavoro, spesso sporco, al suo posto.
Il più significativo fra questi non è come possiamo pensare Giampaolo Pansa, il giornalista improvvisatosi storico che ha prodotto la pubblicistica più diffusa per la destra neonazionalista, ma Walter Veltroni, che di fatto da ieri si può considerare l’ideologo del nuovo corso istituzionale. Non c’è un solo passaggio storico-politico del discorso di La Russa che non debba un riconoscimento al lavoro di sciatteria pseudorevisionistica e ignoranza storica che ha perpetrato Veltroni in questi decenni, prima come sindaco di Roma, poi come dirigente del Partito democratico e infine come autore di infiniti articoli e libri.
Nel suo minestrone neopatriottico La Russa finisce per coinvolgere le vittime di tutte le guerre, gli eroi militari, senza distinzione di ragioni e schieramenti. Si può riandare indietro di vent’anni al governo della prima destra plurale (come la definisce Guido Caldiron) dal 2001 al 2006, che coincidono con la reviviscenza del dibattito ideologico sulle foibe – la giornata del Ricordo viene istituita nel 2004 – e con le crociate internazionali per esportare la democrazia in Afghanistan e in Iraq. Chi manifesta contro la guerra esibisce la bandiera della pace, chi vuole schierarsi contro i pacifisti rispolvera sul balcone la bandiera tricolore. Il neopatriottismo statunitense arriva anche in Italia in sedicesimo – i due a attentati di Nassirya, e il video del contractor Fabrizio Quattrocchi che grida prima di venire giustiziato: «Ora vi faccio vedere come muore un italiano». La destra plurale chiede una medaglia d’oro al valore civile per Quattrocchi (gliela concederà il presidente Carlo Azeglio Ciampi come uno degli ultimi atti del suo settennato), ma anche Walter Veltroni propone di dedicargli una strada: «È una vicenda che ha destato grande emozione. È un modo per onorare la grande dignità del modo in cui una persona che sta per perdere la vita per mano di terroristi assassini ha vissuto i suoi ultimi momenti».
Oppure si può ricordare l’ossessione equiparatrice di Veltroni della militanza rossa e di quella nera degli anni Settanta e notare come ieri abbia trovato un’espressione definitiva nel passaggio in cui La Russa rivendicava nella militanza e nella violenza neofascista di allora una «resistenza al terrorismo». Un passaggio da brividi.
Come ricostruivo nel pezzo I cuori nerissimi di Walter Veltroni, da sindaco fu particolarmente solerte nel voler neutralizzare la dimensione politica della violenza, inaugurando vie e parchi dedicati ai martiri delle formazioni neofasciste. Nel suo percorso di autoaccreditamento come pacificatore nazionale, Veltroni ha provato a giustificare un equilibrismo tattico con cui accomunare centri sociali e spazi neofascisti: quando Stefania Zuccari, madre di Renato Biagetti, ucciso in un agguato fascista a Fidene nel 2006, gli chiese di sgomberare lo spazio di estrema destra Foro 753, si oppose con una sorta di principio di par condicio. Lo ricostuisce una lettera aperta del 2017 pubblicata da Dinamopress a firma di Compagne e compagni di Renato e Madri per Roma Città Aperta:
E così, per citare forse il caso più eclatante, si è arrivati negli anni del suo mandato, all’assegnazione della sede di via Beverino ad associazioni come Foro753, in virtù dell’ordinanza n. 58 del 12 ottobre 2006, firmata dal suo assessore Claudio Minelli. Una comoda tana, dove per oltre un decennio sono state organizzate attività formative per militanti neofascisti, iniziative revisioniste e meeting politici. Chiudere Foro 753 fu l’unica richiesta di Stefania Zuccari, madre di Renato Biagetti, nel suo incontro con il sindaco Veltroni. Ma la risposta in chiaro stile ricattatorio del sindaco fu che per una sorta di par condicio tra fascismo e antifascismo, alla chiusura dei covi di destra avrebbe dovuto seguire anche la chiusura dei tanti centri sociali romani antifascisti.Ora, che Foro753 è definitivamente transitato nel network Lealtà&Azione, che fa capo alla scena «hammerskin» milanese, quella dei saluti romani alle tombe dei repubblichini nel cimitero Monumentale, come la mettiamo?
Il culto vittimario
La mancanza plateale di dimestichezza con gli strumenti e ambiti dell’indagine storica (storia delle fonti, storia sociale, storia della ricezione…), fanno sì che le ricostruzioni di Veltroni siano sempre grossolane, personali, approssimative, edulcoranti, opache. I concetti che usa finiscono per assomigliare a quelle «idee senza parole» che secondo Furio Jesi erano la base della mitopoiesi neofascista. Il caso esemplare è nel suo articolo su Sergio Ramelli, che subito dopo il discorso di La Russa il Corriere della sera ha ripostato in prima pagina insieme al suo articolo su Luigi Calabresi, mostrando davvero quale sia il canone culturale che ha legittimato la salita di La Russa alla seconda carica istituzionale dello stato.
Veltroni si accoda – consapevolmente? Inconsapevolmente? – al racconto mitico del neofascismo, senza nemmeno andare a indicare dove e perché c’è stata questa mitopoiesi. Sempre nel pezzo sui Cuori nerissimi di Veltroni provavo a districare un passaggio storico magari non perspicuo a tutti, che Veltroni ovviamente ignora e strumentalizza.
Il Movimento sociale italiano fino al 1973, Elia Rosati lo ricostruisce bene, è il partito dell’ordine, sta tentando un maquillage che lo affranchi dalla storia mussoliniana, un affiancamento alla Dc e ai liberali in parlamento, già nelle elezioni precedenti del 1972, in nome di un atlantismo che paga, almeno sembra, in termini di consensi elettorali. Ma molti giovani militanti non hanno nessuna simpatia né per l’idea di partito dell’ordine, né per quella di fare da sostegno alla Dc andreottiana, né per l’atlantismo.
«Infatti il 12 aprile del 1973 a Milano una manifestazione nazionale del Msi, vietata e poi disconosciuta dal partito stesso, degenerò in forti scontri che tennero in ostaggio la parte nord est del centro cittadino per diverse ore. Durante gli incidenti di piazza alcuni sanbabilini uccisero con una bomba a mano l’agente di Ps Antonio Marino: nel giro di pochi istanti tutta la campagna missina per presentarsi come partito d’ordine crollò; in una manifestazione del Msi era stato ucciso un poliziotto. Fu così che la vicenda tragica di Sergio Ramelli, deceduto in seguito ai traumi ricevuti dopo un’agonia di quarantotto giorni (il 29 aprile 1975), offrì la cinica occasione per un riscatto mediatico e storico».
In mezzo, non dimentichiamolo, c’è anche la strage di Brescia, 1974, che mostra in modo plateale la contiguità tra eversione neofascista e apparati dello Stato. Questa svolta decisiva viene ridotta da Veltroni a quattro elusive righe:
«Ignazio La Russa, che è stato avvocato della famiglia Ramelli, racconta come tutto, per la destra, cambia con la morte dell’agente Marino, quando due esponenti neofascisti gettano bombe a mano contro la polizia. Fino a quel punto, dice La Russa, ‘avevamo un rapporto privilegiato con le forze dell’ordine. Quella follia cambiò tutto’».
Attraverso la morte di Ramelli, come di altri, da Francesco Cecchin (18 anni) e Paolo Di Nella (20 anni), e attraverso soprattutto il processo nel 1987, in una fase storica completamente mutata, l’Msi trova una specie di rigenerazione.
Celebrando Ramelli come martire del pantheon neofascista Veltroni trova una porta d’accesso privilegiata nella nuova costruzione dell’identità nazionale da parte dei postfascisti. C’è un passaggio però paradigmatico dell’articolo su Ramelli che vale la pena citare: «Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi. Vale la pena usare la memoria – dice Veltroni – non solo per un giorno, oggi che vediamo l’odio riemergere sui muri delle case di deportate morte da tempo e impazzare incontrollato su schermi tecnologici e moderni». Il paragone qui è tra le vittime rappresentate dai militanti neofascisti e gli ebrei sterminati nell’Olocausto. Già.
Questo culto vittimario è il dispositivo che permette a Ignazio La Russa di raccontare la storia non a partire dall’agency, dalle responsabilità, dagli schieramenti, ma dall’incanto vittimario. Gli permette persino di accostare nel pappone storico l’omicidio di Ramelli con quello di Fausto e Iaio, cancellando con un colpo di spugna i legami tra stragismo di stato, servizi segreti deviati e militanza di estrema destra. Gli permette, ancora, persino di provare a inserire nel canone neonazionalista un presidente cristallinamente antifascista come Sandro Pertini che viene ricordato per il gesto di umana pietà nei confronti di Paolo Di Nella come se fosse una matrice di questo percorso di revisione storica dell’identità nazionale.
E fa impressione come nel discorso di insediamento di un senatore della Repubblica si invochi il ripristino di una festa dell’inizio del Regno d’Italia. Anche qui i danni della retorica neopatriottica di Ciampi e Napolitano, il Partito democratico e Veltroni, li vediamo quando ormai sono irremediabili. Ma stiamo sul momento chiave di questa scadentissima reinvenzione della tradizione. La Russa liquida gli anni Settanta e il terrorismo ricordando come vittima rappresentativa di tutte le vittime il commissario Luigi Calabresi, anche lui altra icona, padre di una nazione ormai astratta dalla storia.
La memoria a scapito della storia
La memoria che dilaga a scapito della storia produce mostri. La memoria, come la vittima, era un’emerita sconosciuta nel dibattito culturale e nelle scienze sociali fino a vent’anni fa. Come sintetizzava perfettamente Ezio Traverso in Passato: istruzioni per l’uso, la memoria «ha invaso il terreno», ormai ingloba in sé il passato e lo fa con una rete a maglie più larghe di quelle della disciplina chiamata storia: depositandovi una dose ben più grande di soggettività e di «vissuto». Ci appare come una storia meno arida, più toccante, più «umana».
Questa capacità emotiva della memoria, rispetto alla «freddezza» della storia, veniva invocata già nel 2008 da Mario Calabresi che si metteva insieme alle vittime dei terrorismi globali. Così come da Veltroni sempre nel 2008 nella sua lettera pessima ed esemplare (andrebbe letta insieme al suo pessimo ed esemplare discorso di fondazione del Partito democratico al Lingotto) a Repubblica, quando esalta, rispetto alla Grande Storia che sorvola le nostre teste, le mille piccole storie singolari e drammatiche raccolte nei recenti archivi di storia nazionale: «Il grumo di vita vera che le vicende umane di Pieve Santo Stefano e di bancadellamemoria.it raccontano ci ricordano che tutto non può essere riassunto in grafici colorati e in parole sagge. […] La storia grande, quella sistemata ordinatamente nei libri, ha significato un padre scomparso in Russia, una sorella devastata dal tifo, un figlio trasformato in una sagoma dipinta con il gesso sulla strada. La memoria. Ciò che ci fa, storicamente e soggettivamente, quello che siamo».
Quello che siamo, ossia epigoni, martiri, tutti compresi nella nuova ideologia di pacificazione nazionale: il vittimismo postfascista. La Russa ne è il primo esponente istituzionale, e ha detto che in nome di questo nuovo corso politico vorrà cambiare anche la costituzione. Chissà che Veltroni non diventi presidente della terza Repubblica.
*Christian Raimo è nato a Roma, dove vive. Scrive per diverse testate, tra cui Internazionale, il manifesto, minimaetmoralia. Il suo ultimo libro è Riparare il mondo (Laterza, 2020).