Per fare la capa dei conservatori…
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G. Fas.
Ha voluto che gli facessero la barba e che lo vestissero con cura, ha voluto che chiunque arrivasse al suo capezzale avesse un po’ di eleganza, per gli uomini ha chiesto la giacca. Che la morte non trovasse sciatteria nel luogo in cui era stato costretto a vivere i suoi ultimi dodici anni.
Ha chiesto che «per favore niente piagnistei, ricordatemi con un sorriso». E nella sua ultima lettera al mondo ha scritto che «se avrete un nodo alla gola o vi scenderà una lacrima fermatevi, fate un bel respiro e sorridete, perché se mi avete conosciuto ricorderete com’ero, sempre con la battuta pronta, a scherzare, di buon umore senza mai lamentarmi».
Federico era esattamente così. Conoscerlo era un privilegio perché dalla sua immobilità quasi assoluta era capace di scuotere le esistenze degli altri. Di muovere sentimenti e coscienze. Non aveva paura della vita, come non ne ha avuta della morte perché dal fondo della sua sofferenza la morte lui l’ha immaginata migliore del suo vivere imprigionato in un corpo immobile.
«Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita» è stato sincero, «sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così e io sono allo stremo sia mentale sia fisico».
Per gli amici dell’Associazione Coscioni che lo hanno accompagnato lungo la via contorta della Giustizia e nel giorno del suo finale, ha trovato parole leggere che scacciassero il pianto. «Ho visto che mi avete disegnato prima con un paio di boxer e poi con un bel pigiamino blu con delle sbarre che mi imprigionavano al letto» ha detto ricordando i disegni pubblicati sul loro sito durante i vari passaggi legali della sua storia. «Ora levate le sbarre perché finalmente sono libero di volare dove voglio, e spero di essere lì con voi».
Se n’è andato, Federico. Eppure non è mai stato così presente. Lo ha detto lui stesso a sua madre in quel saluto finale immaginato un milione di volte con chissà quante parole e alla fine fatto di poche frasi, perché tanto tutto — ma proprio tutto — parlava per l’uno e per l’altra, in quella stanza. «Ma’, vado ma tanto lo sai che resto qui con te», le ha detto cogliendo la commozione di quella donna che per lui è stato tutto per dodici anni.
Lo avevano dato per spacciato, la sera dell’incidente stradale (era l’autunno del 2010). «Dicevano tutti che sarei morto, invece…». Invece il suo fisico ha resistito. Federico è uscito dal coma, dalla terapia intensiva, e quando si è svegliato ha capito subito che il suo futuro sarebbe stato immobile. I medici confermarono: era tetraplegico.
Decise di voler morire una domenica pomeriggio del 2015, o meglio, quel giorno lo comunicò a suo padre (che morì l’anno dopo). «Che intenzioni hai per il futuro?» chiese lui portandolo in cortile a fare un giro con la carrozzina sulla quale all’epoca Federico riusciva ancora a stare.
«Finché riesco a resistere vado avanti, poi faccio di tutto per avere il suicidio assistito in Italia e se non va bene vado a morire in Svizzera» rispose Federico. «So che ha capito», ha sempre ripetuto a se stesso.
Pochi giorni fa, dimagrito e provato dall’ennesima infezione, dalla febbre alta e dai soliti dolori inenarrabili, è tornato a parlare del capire degli altri: «Non so se tutti capiranno mai e accetteranno mai la mia scelta, perché in queste condizioni ci sono io e parlare da esterni è facile. Non ho un minimo di autonomia nella vita quotidiana, sono in balia degli eventi, dipendo dagli altri su tutto, sono come una barca alla deriva nell’oceano».
La barca alla deriva nell’oceano ha tenuto il timone dritto quando è stato il momento di affrontare l’onda più grande di tutte. Federico ha risposto deciso alle domande di rito dell’ultimo minuto. «Sei cosciente?» Sì. «Sei libero nella tua scelta?» Sì. E avanti così, di risposta in risposta. Alla fine era lui che ripeteva a tutti la procedura, cioè la via della dolce morte.
«C’è qualcosa che posso fare per te, che posso portarti da Roma?» gli aveva chiesto l’amica Filomena Gallo due giorni fa. «Vorrei un po’ di Porchetta di Ariccia» era stata la sua richiesta (esaudita). Si divertiva anche così, Federico. A spiazzare tutti con un po’ di allegria o a parlare con Oreste, il pesciolino rosso che ha visto crescere nella sua stanza.
Tutto sempre uguale, in quella stanza. Per 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno, per dodici lunghissimi anni. Una non-vita che era una condanna. Il verdetto era: fine pena mai. Fino a ieri.