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La Prima della Scala di quest’anno, attesa con timori quasi rituali, ha mostrato un carattere diverso da quanto annunciato. La Lady Macbeth di Šostakovič, che molti prefiguravano come un urto sonoro e visivo, ha trovato un pubblico più aperto del previsto. La direzione di Riccardo Chailly e la regia di Vasily Barkhatov, pur accompagnate da avvisi sulle scene crude e sulla potenza degli ottoni, hanno finito per conquistare una sala che si immaginava più refrattaria. Anche la lunga durata in lingua originale, temuta da molti, è scivolata via con naturalezza: la percezione generale è stata quella di un teatro che sfida, ma non esclude.
In un momento in cui Milano osserva con attenzione i nuovi equilibri del Paese, la serata del 7 dicembre è sembrata un termometro della città. Tra i palchi si intrecciavano ironie e riflessioni, e non mancavano commenti sulle trasformazioni politiche e culturali in corso. Ma la vera ombra non veniva dal dibattito, bensì dagli ultimi dodici mesi: un anno segnato dalla scomparsa di figure simboliche come Giorgio Armani, Ornella Vanoni, Oliviero Toscani e Rosita Missoni; dall’inchiesta urbanistica che ha lasciato sconcerto; e dal passaggio di mano su San Siro, percepito come un cambio di era. La città, ora, attende che l’euforia promessa dalle Olimpiadi restituisca slancio a un tessuto provato.
Nei giorni precedenti, l’arcivescovo Mario Delpini aveva toccato corde più dure denunciando «il fetore di morte del denaro sporco» e i rischi che esso comporta per l’economia reale. Parole che hanno circolato a lungo nei commenti, anche se la serata della Scala è riuscita a sospenderle senza cancellarle. L’opera stessa, con il suo vortice di desiderio, violenza e soffocamento emotivo, sembrava restituire una versione amplificata delle inquietudini contemporanee. Molti hanno apprezzato il modo in cui la musica dava forma all’inconscio dei personaggi, mostrando come il trauma non elaborato si trasformi in azione impulsiva.
Nel foyer, affollato come sempre, si mescolavano generazioni e mondi diversi. Mahmood ricordava i suoi anni nei quartieri periferici e lo stupore di essere ora lì, nel cuore della città. Achille Lauro parlava del valore simbolico della serata per i giovani. Attori, volti dello spettacolo e figure della moda si alternavano, molti dei quali avevano scelto abiti Armani in omaggio allo stilista scomparso. C’era chi osservava in silenzio, chi commentava lo spettacolo, chi semplicemente guardava passare la città.
Pochi eccessi negli abiti, qualche nota volutamente eccentrica — tra piume, outfit pastello e interpretazioni fantasiose — ma un’eleganza complessiva più sobria rispetto ad altre edizioni. Dal palco reale seguivano la serata il sindaco Beppe Sala, in un momento non facile del suo mandato, e soprattutto Liliana Segre, salutata con affetto dallo stesso Sala come presenza necessaria, capace ancora di dare energia alla città e al suo teatro.
E quando lo spettacolo si è concluso, il commento più fulmineo è arrivato, come spesso accade, da Roberto D’Agostino, che osservando la platea ha scherzato sulla presenza “di molti russi, ma non di certe rus…”. Un lampo di ironia che ha alleggerito una serata densa, restituendo l’immagine di una Milano stanca ma viva, consapevole delle proprie ombre e ancora capace di raccontare se stessa attraverso il rito del suo teatro più emblematico.





