Palazzo Roverella dedica a Rovigo la mostra più completa sulla fotografa di Udine diventata artista e dissidente in Messico
d iMaurizio Fiorino
C’è una mostra nella mostra, a Rovigo. La prima è, semplicemente, Tina Modotti. L’opera, in esposizione a Palazzo Roverella fino al 28 gennaio, e rappresenta la più completa esposizione mai organizzata in Italia sull’opera dell’artista morta in circostanze sospette, su un taxi, nel 1942. Più di trecento lavori tra immagini, documenti, pagine di giornali e copertine e filmati: il senso è quello di presentare al grande pubblico colei che tanti considerano una delle figure più importanti e misteriose della fotografia del secolo scorso. L’altra mostra, invece, è quella più interessante, quella che fa battere il cuore. E non è un caso che, dei due piani del percorso, occupi la parte centrale, come una sorta di punto di saturazione tra un prima e un dopo. Si tratta della mostra che Modotti organizzò a Città del Messico quasi un secolo fa.
Dunque: siamo nel 1929 e, a ricostruire questa storia ci pensa Gianfranco Ellero, storico e giornalista. Sappiamo, innanzitutto, che all’epoca Modotti si stava riprendendo dal dramma dell’assassinio di Julio Antonio Mella. Era sì una celebrità nel mondo della fotografia eppure si sentiva depressa e in pericolo: il governo del Messico, dove aveva scelto di vivere, aveva bandito il Partito comunista al quale Modotti aveva aderito. «Sto seriamente pensando a una mostra in tempi brevi – scriverà a Edward Weston – perché sento che, se lascerò questo Paese, sarà quasi un dovere mostrare non ciò che io ho fatto, bensì ciò che qui può essere fatto senza ricorrere alle chiese coloniali, aicharros, allechinas poblanas e a simili spazzature sulle quali molti fotografi hanno indugiato». Aveva intenzione, insomma, di mostrare un altro Messico, lontano dai luoghi comuni, dalle immagini folcloristiche e perciò sciatte, turistiche.
L’occasione di esibire il suo lavoro in pompa magna arrivò quando, con l’aiuto delle organizzazioni della sinistra politica e dei gruppi d’avanguardia del rinascimento messicano, le venne offerto uno spazio espositivo nell’atrio dell’Università Nazionaledel Messico. Dopo diverse collettive, quella che durò in tutto pochi giorni – ovvero dal 3 al 14 dicembre 1929 – fu l’unica, grande, mostra personale di Modotti in vita. All’inaugurazione presenziarono circa un centinaio di persone e molti intellettuali messicani. Non esistono documenti o cronache di quella serata, se non qualche frase del muralista David Alfaro Siqueiros che definì quell’esposizione come la prima mostra rivoluzionaria del Messico.
Ma perché quei giorni furono tanto importanti? Oltre che a rappresentare la prima e unica personale di Modotti, fu anche l’occasione, per lei, di diffondere il suo manifesto sulla fotografia, dandole il valore documentale, etico e civile che tutti conosciamo. Una sorta di testamento artistico che fonda la sua importanza nella figura di una Modotti autocritica nei confronti del proprio lavoro: dimostrazione pratica di come l’artista, nata a Udine, fosse conscia dei risultati ottenuti con la sua arte, tanto che alcune opere esposte divennero emblematiche e considerate, post mortem, testimonianza dell’anima profondadel Messico. A essere interessante è, perciò, la scelta e la disposizione stessa delle fotografie di quella mostra che a Rovigo viene parzialmente ricostruita con l’aiuto dei pochi documenti disponibili: di certe, ci sono solo 41 fotografie delle circa 60 esposte nel 1929. La posizione è più o meno la stessa, ovvero come la pensò l’artista, su due ordini, cercando di privilegiare il ritratto dell’amato Julio Antonio Mella. E poi oggetti, fiori, fili del telegrafo e lavoratori coi sombreros di paglia, panni stesi al sole e ritratti: sei anni di lavoro messicano.
Di quella mostra, s’intende, non esiste né un catalogo né una lista completa di opere, ma ci sono immagini scattate presumibilmente durante l’apertura. In una istantanea, Modotti copre la sua stessa fotografia di Mella, quasi a voler dare la giusta importanza a quell’immagine. In conclusione, Baltazar Dromundo, recensendo quella mostra, scrisse che l’opera di Modotti aveva un carattere rivoluzionario poiché la rivoluzione rappresenta uno stato dello spirito, un obiettivo invece che una fede.
E, se la citazione era rubata a Max Eastman, vero è che quegli undici giorni consegnarono Modotti alla storia della fotografia. Storia che, spente le luci, fece ripiombare la protagonista nell’oblio. Nella primavera del 1930, l’artista fu espulsa dal Messico con l’accusa falsa di aver partecipato all’attentato contro il presidente Pascal Ortiz Rubio. In Germania proverà a sbarcare il lunario, ma l’ossessione della luce, o meglio la mancanza di luce, non la farà dormire la notte. Proverà una Leica, la macchina fotografica che tutti bramano, ma gli scatti di quel periodo sono pochissimi. Il mondo della fotografia è nel pieno del suo processo evolutivo e gli ultimi lavori dell’artista sono una sorta di addio alle scene. Dopo Berlino andrà a Mosca, poi a Parigi e di nuovo in Russia. Parteciperà alla guerra di Spagna e ritornerà in Messico, punto di partenza e conclusione naturale del suo viaggio. La fiamma della fotografia era ormai spenta e questa mostra di Rovigo, insomma, è un tentativo, riuscito, di tenerla sempre accesa.