The Wood Gatherer, Jean-Baptiste-Camille Corot, c. 1865-70
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Il saggista spiega come, grazie ai viaggi avventurosi, ha predetto la pandemia. “Ce ne sarà un’altra”
Come è passato dai romanzi ai viaggi?
«Avevo sempre letto la non fiction e, a un certo punto, ho capito che poteva essere piena di arte e di immaginazione quanto la fiction. Poi sono sempre stato interessato alla natura: i boschi immensi e selvaggi del Montana hanno risvegliato la mia passione. E così ho iniziato a occuparmi di non fiction specializzandomi nel mondo naturale».
Come?
«Innanzitutto ho letto Darwin. E poi molti libri su di lui, sull’evoluzione, sulla storia naturale e sull’ecologia. Oltre che da Darwin sono stato influenzato da Faulkner, da Robert Penn Warren, che è stato mio insegnante e mentore, e da Edward O. Wilson, in particolare dal suo The Theory of Island Biogeography (la teoria della biogeografia insulare)».
E i viaggi?
«Ho iniziato a fare molta ricerca in luoghi selvaggi, seguendo i biologi nelle foreste e nei deserti, scrivendo di scienza e scienziati e delle loro avventure. Poi nel 1999 mi ha contattato il National Geographic chiedendomi una serie di articoli su Mike Fay, uno scienziato americano che voleva attraversare a piedi le foreste del Congo per fare una ricerca biologica enorme».
I luoghi più stupefacenti?
«Il Madagascar: strano e straordinario. Le foreste del Congo: difficili e meravigliose. È stata una grande opportunità poter camminare attraverso queste foreste con Mike Fay, attraversando paludi e fiumi in sandali e pantaloncini corti e dormendo per terra. E la Tasmania: una piccola isola che amo. Tornerò a novembre per un nuovo progetto».
Riguarda i virus?
«Riguarda il cancro come fenomeno evolutivo negli umani e alcune forme strane apparse negli animali, come il diavolo della Tasmania, in cui si è visto un tumore contagioso, qualcosa che sembra impossibile. Sono 17 anni che ci lavoro».
Tutti i suoi viaggi come si legano agli studi sui virus?
«Mi sono interessato a Ebola per la prima volta proprio nel 1999, seguendo Fay in Congo. A un certo punto abbiamo attraversato una foresta in cui c’era un villaggio dove Ebola aveva ucciso 31 persone e noi abbiamo camminato lì vicino».
Non era pericoloso?
«Una delle regole della spedizione era che non si uccidesse alcun animale per mangiarlo. Portavamo sempre il nostro cibo con noi. Nel Minkébé abbiamo vissuto un’esperienza drammatica: è un luogo bellissimo, perfetto per i gorilla e, in dieci giorni di cammino, non ne abbiamo incontrato neanche uno. Dopo l’epidemia di Ebola erano tutti morti. Così mi sono interessato al virus: dove viveva Ebola? In quale animale era ospitato? Quale animale della foresta lo nascondeva e perché a un certo punto infettava gli umani, causando le epidemie?».
Ha trovato risposte?
«Non lo sapevamo allora e non lo sappiamo ancora. Ma quello è stato l’inizio del mio interesse per l’ecologia e l’evoluzione dei virus pericolosi, che attaccano gli esseri umani. E poi ho pubblicato Spillover nel 2012: quello che scrivevo, del rischio di una pandemia in arrivo, lo sapevo perché lo dicevano gli scienziati e i dottori che avevo incontrato».
L’ultimo articolo per National Geographic è proprio del 2020.
«Già. Poi abbiamo smesso di viaggiare. In febbraio, quando iniziò a diffondersi il Covid, ero in Tasmania: sapevo che poteva essere la nuova pandemia e che poteva essere un disastro globale, perché gli scienziati lo dicevano da anni».
C’è un nesso fra virus e ambienti selvaggi?
«Sì. I virus che infettano gli animali hanno più probabilità di infettare anche gli umani; specialmente quelli che colpiscono scimmie, pipistrelli e uccelli. Se gli umani distruggono le foreste, uccidono gli animali, rovinano la natura selvaggia e vanno in questi luoghi si espongono a nuovi virus, ospitati negli animali selvaggi e che a quel punto hanno l’opportunità di infettare gli umani».
Succede spesso?
«Spesso non succede niente. Ma a volte, quando va male all’uomo e va bene al virus, quest’ultimo passa dall’animale all’uomo. E c’è lo spillover. E il rischio della pandemia. Quindi distruggere la natura selvaggia è offrire ai virus, anche a quelli in estinzione, una chance per infettare gli uomini».
Che cos’è il «cuore pulsante» della natura selvaggia?
«La natura è selvaggia se ha quattro proprietà. La dimensione: deve essere grande. La connessione: gli elementi e i processi sono sempre collegati. La biodiversità: predatori, prede, un gran numero di animali. I processi ecologici: predazione, competizione, erbivoria, fotosintesi, decomposizione… che legano una creatura all’altra e creano un ecosistema. Detto in altro modo: la natura selvaggia ha un cuore pulsante se è grande, diversificata e connessa abbastanza da essere un ecosistema funzionante».
Il sottotitolo parla di «speranza».
«Sì. Possiamo prevenire, controllare e ricostruire alcuni ecosistemi. Dopo il viaggio di Fay in Gabon sono stati istituiti 13 parchi protetti. Quando Jane Goodall ha accompagnato Fay a Goualougo, in Congo, ha aiutato a renderlo un’area protetta: lì vivevano degli scimpanzé che non avevano paura degli umani, perché non li avevano mai incontrati».
Non aveva paura durante il viaggio con Fay?
«No. Era difficile, scomodo e fisicamente estenuante, ma era troppo interessante lì fuori per essere spaventati».
C’è il rischio di un’altra pandemia?
«Sì ed è serio. Dovremmo aspettarcela. Può arrivare domani o fra dieci anni: come nel 2012, non posso dire quando accadrà, ma è ancora vero che ci sono moltissimi virus che possono evolversi in una pandemia».
Uno pericoloso?
«L’influenza aviaria, H5N1, che in questo momento in America sta infettando anche le mucche».
E il vaiolo delle scimmie?
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«È uno spillover.
Vive in Africa, è pericoloso, ha un alto tasso di mortalità ma una contagiosità bassa, perché passa dal contatto pelle a pelle. Va preso seriamente e dobbiamo fermarlo ma non sarà probabilmente quello a causare la prossima pandemia, perché non è un virus respiratorio».