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di Seán O’Hagan
Nessun artista ha l’intensità di Nick Cave. Agli inizi a spingerlo era l’istinto feroce del punk e i suoi più che concerti erano assalti. Con il tempo sono diventati psicodrammi in cui instaura un vero e proprio contatto fisico con il pubblico fatto di abbracci in un processo di redenzione. Alla base la scomparsa di due figli, il primo Arthur, avuto con l’attuale moglie Susie Bick, caduto da una scogliera a Brighton, in Inghilterra nel 2015. Il secondo, Jethro, figlio di Beau Lazenby, venuto a mancare lo scorso maggio. Questa stessa intensità la trovate nel lungo libro-dialogo con l’amico e giornalista Sean o’Hagan chequi anticipiamo.
Seán o’Hagan: «Sono sorpreso che tu abbia accettato di fare questa cosa dato che non rilasci interviste da tanto tempo».
Nick Cave: «Be’, a chi piacciono le interviste? Le interviste, in generale, fanno schifo. Davvero. Ti divorano. Le detesto. L’intera premessa è così umiliante: hai un nuovo album o un film da promuovere, oppure un libro da vendere. Dopo un po’ vieni solo consumato dalla tua stessa storia.
Credo di aver semplicemente realizzato, a un certo punto, che farequel genere di interviste non mi era di alcun beneficio. Non faceva che togliermi qualcosa. Dopo, dovevo sempre riprendermi un po’. Era come se dovessi andarmi a cercare di nuovo. Così, più o meno cinque anni fa, ho smesso e basta».
S. o’H:«Come ti fa sentire allora questo progetto?».
N.C.:«Non lo so. Mi piace avere delle conversazioni. Mi piace parlare, entrare in contatto con le persone. E noi due abbiamo sempre avuto conversazioni imponenti, estese, così quando mi hai fatto questa proposta, sono stato, come dire, intrigato dal vedere dove ci avrebbe portato.
Vediamolo allora, che ne dici?».
S. o’H:«Quando ci siamo parlati a marzo (2020), il tuo tour mondiale era stato appena annullato a causa della pandemia. Sembravi averla presa con notevole filosofia. Era un momento particolare, questo è certo».
N.C.:«Quando è arrivato il Covid e il mio manager, Brian, mi ha detto che non saremmo andati in tour, ho sentito questo senso di svuotamento, come se il mondo intero fosse venuto a mancarmi sotto i piedi. Avevamo tutti dedicato una mole enorme di riflessioni e sforzi a come presentareGhosteen (il suo ultimo album in studio,ndr)nel 2019 dal vivo – avevamo fatto le prove con dieci coriste e per il concerto avevamo ideato una struttura visuale maestosa, veramente straordinaria ed esaltante.
Un sacco di lavoro, un sacco di energia mentale e di spese. Così, quando ho definitivamente saputo che non saremmo partiti, all’inizio ne sono rimasto sconvolto. Mi ha scosso nel profondo del mio essere perché ero io quella cosa che andava in tour. È ciò che ero. Ora, lo dico con molta attenzione, perché so quanto ne sono stati delusi i fan, ma, a essere sincero, quel senso di collasso esistenziale, be’, è durato circa mezz’ora. Poi mi ricordo che ero lì nell’ufficio del mio manager e ho pensato quasi con senso di colpa “Cazzo! Non andrò in tour. E forse per un intero anno”. Inaspettatamente si è fatto largo un incredibile senso di sollievo, una sorta di onda che mi si rovesciava dentro, una specie di euforia, ma anche qualcosa di più di questo – una folle energia. Un senso di possibilità, forse? Sì, ma di vera possibilità, che era impotenza, ironicamente. Non la possibilità di fare qualcosa, ma quella di non fare qualcosa. All’improvviso colpito dall’idea di potermene stare semplicemente a casa con Susie, mia moglie, e la sola cosa in sé era straordinaria perché abbiamo sempre misurato la nostra relazione in termini di mie partenze e ritorni. D’un tratto potevo passare del tempo con i miei figli, o starmene soltanto su una sedia in balcone a leggere libri. Era come se mi fosse stato concesso diesseresoltanto, e non fare».
S. o’H:«E mentre la pandemia andava avanti, c’era la sensazione che il tempo si fosse scardinato, che i giorni scivolassero se uno dentro l’altro. L’hai percepita anche tu?».
N.C.:«Sì, il tempo appariva alterato.
Sembra quasi una cosa sbagliata da dirsi, ma, da un certo punto di vista, ho amato molto la singolare libertà di cui mi ha fatto dono. Mi piaceva alzarmi al mattino e avere davanti un nuovogiorno in cui potevo solo esistere senza avere nulla da fare. Il telefono ha smesso di suonare in continuazione e, in modo repentino, nella loro ripetitività le mie giornate sono divenute bellissime. Curiosamente sembrava come essere tornato un tossico, il rituale, la routine, l’abitudine. Ora, dico tutto questo sebbene il tour precedente, quello diSkeleton Tree, sia stato uno dei periodi più importanti nella mia vita professionale, per il semplice fatto di essere stato sul palco ogni sera con quella feroce energia che si rovesciava dal pubblico. È difficile esagerarne lo straordinario senso di connessione. È una cosa che cambia la vita. No, anzi, che la salva! Ma è stato anche molto provante, da un punto di vista fisico e mentale. Così, quando l’ultimo tour è stato cancellato, la delusione iniziale ha lasciato il posto a un senso di sollievo e, sì, a una strana e imprevedibile potenzialità. Mi sento in colpa persino a dirlo, perché so quanto devastante la pandemia sia stata per tanti».
S. o’H:«Dalle nostre conversazioni di allora, era chiaro che avessi presto compreso che il lockdown si sarebbe rivelato un tempo di riflessione».
N.C.:«È stata una cosa istintiva.
Ricordo la sensazione che non fosse giusto mettermi a fare una qualche performance online dalla cucina, dal bagno, in pigiama, o in qualsiasi altro modo lo abbiano fatto allora alcuni artisti, con tutte quelle vistose e grossolane manifestazioni di solidarietà. Per me rappresentava piuttosto un momento in cui stare seduti dentro la storia e riflettere e basta. Mi sentivo frenato dal mondo. Ho vissuto un periodo singolare e riflessivo durante quell’estate di Covid. Non lo dimenticherò mai, seduto sul mio balcone a leggere molto, a scrivere un mucchio di cose nuove, a rispondere alle domande diThe Red Hand Files(il sito di Nick Cave dove risponde direttamente e senza filtri alle domande poste dai lettori, ndr).È stato un tempo interessante, nonostante il costante brusio di ansia e terrore in sottofondo».
S. o’H:«Ricordo una nostra telefonata proprio all’inizio della pande mia, hai detto “Questa è quella grossa”».
N.C.:«Sì, credo avessi appena letto qualcosa che mi aveva fatto percepire fin dentro casa l’assoluta, immensa potenza del virus e quanto profondamente vulnerabili siamo tutti noi, e quanto del tutto impreparati come società. Io e te eravamo entrambi parecchio spaventati da questa cosa invisibile che stava al di là della porta.
Tutti lo erano. Sembrava davvero arrivata la fine dei tempi e che il mondo fosse stato colto nel sonno. Era come se, qualsiasi ritenevamo fosse ormai la storia della nostra vita, questa mano invisibile si fosse allungata fino a scavarci dentro un buco enorme».
S. o’H:«Quest’immagine mi fa pensare all’idea della narrazione interrotta di cui ti ho sentito parlare rispetto al tuo modo di scrivere canzoni: ovvero, come sia il tema che il significato dei tuoi testi più recenti siano divenuti meno diretti e più elusivi».
N.C.:«Esattamente. Le mie canzoni sono di sicuro diventate più astratte, in mancanza di una definizione migliore, e, sì, meno dominate da una narrativa tradizionale. A un certo punto mi sono semplicemente stufato discrivere canzoni in terza persona che raccontavano una storia strutturata che cominciava dall’inizio e si muoveva diligentemente verso la sua conclusione. Ho cominciato a nutrire dei dubbi nei confronti della forma. Mi sembrava scortese infliggere alla gente sempre queste storie. Era una specie di tirannia. Quasi come se mi nascondessi dietro quei precisi e cesellati racconti perché spaventato da ciò che mi ribolliva dentro. Volevo iniziare a scrivere canzoni che fossero in qualche modo più vere, che fossero autentiche rispetto alla mia esperienza».
S. o’H:«In modo particolare rispetto alla tua esperienza più recente?».
N.C.:«Sì. Che era un’esperienza di rottura, direi, simile a quella di molti. Ma da un punto di vista puramente personale, vivere la mia vita dentro una narrazione precisa non aveva più molto senso. Arthur è morto e tutto è cambiato. Quel senso di interruzione, di una vita interrotta, ha pervaso ogni cosa. Per quanto riguarda quello che stiamo facendo io e te, è dura per me tornarci sopra, ma a un certo punto parlarne sarà essenziale, perché la perdita di mio figlio mi definisce».
S. o’H:«Lo capisco perfettamente.
Dunque raccontare una storia lineare in una canzone, per quanto drammatica, è diventato a un tratto meno rilevante per te?».
N.C.:«Sì, ma non mi sono allontanato da canzoni intensamente visive; è più che il filo narrativo si è fatto contorto, aggrovigliato, mutilato – la forma stessa è divenuta più traumatica. La mia musica ha cominciato a riflettere la vita per come la vedevo. Ciò detto, le canzoni dei miei ultimi album sono ancora canzoni narrative, ma la narrazione è stata come pressata in untritacarne.Ghosteen, per esempio, racconta ancora una storia. Una lunga, epica storia di perdita e desiderio, ma completamente ridotta a pezzi, deflagrata».
S. o’H:«È sicuramente un tipo molto diverso di narrativa, molto più ambiziosa, concettuale persino.
N.C.:«Sì. Radicalmente diverso. Non c’è nulla di lineare in quelle canzoni.
Cambiano direzione o si interrompono, oppure, peggio, si dividono in atomi davanti ai tuoi occhi. Sul serio, le canzoni esistono sulla base delle loro singolari volontà».
S. o’H:«Mi pare che alcuni dei tuoi fan non siano stati molto contenti della direzione che la tua musica ha preso».
N.C.:«Già, ci sono parecchi fan di vecchia data piuttosto scontenti che vorrebbero tornassi a scrivere canzoni “vere e proprie”, ma non prevedo che la cosa possa avvenire nel prossimo futuro. C’è una profonda nostalgia per i vecchi pezzi che segue la nostra band come un cane anziano e assonnato.
Suppongo che i Bad Seeds siano in giro da così tanto, e siano passati attraverso così tante reiterazioni, da far sentire alcuni molto legati al passato o, più precisamente, al loro di passato, ai cosiddetti bei tempi. Quindi l’idea che avremmo fatto un genere diverso di musica appare loro una specie di tradimento. E io in un certo senso lo capisco, ma non posso permettere agli impulsi nostalgici o ai sentimenti di alcuni fan di vecchia data di arrestare la naturale tensione propulsiva della band. Fortunatamente sono in tanti ad avere voglia di viaggiare con noi, di fare esperienza di quell’adorabile disagio e pericolo che deriva dal tentare qualcosa di nuovo».