La questione giustizia, o se si preferisce la vicenda Nordio, è giunta a un punto delicato. Da un lato, la presidente del Consiglio difende in modo inequivocabile il suo ministro, da lei voluto e imposto.
Dall’altro la riforma nel suo complesso, peraltro ancora da decifrare, rischia lo stallo.
Un ministro messo sotto accusa dall’opposizione e — scenario estremo — costretto alle dimissioni, sarebbe una drammatica sconfitta per il governo. Ma un ministro che resta in sella ibernato, messo di fatto nell’impossibilità di agire, non è utile e anzi rappresenta ugualmente una perdita d’immagine per l’esecutivo. Il primo a rifiutare una simile condizione mortificante sarebbe senza dubbio Carlo Nordio.
Chi ricorda l’insistenza al limite dell’ostinazione con cui Giorgia Meloni, nei giorni delle trattative con i soci della coalizione, si rifiutò di considerare altri candidati per via Arenula, non si meraviglia della sua presa di posizione delle ultime ore.
Occorre rammentare, semmai, che Berlusconi aveva altri nomi per quel ministero, nomi più omogenei a lui. Oggi lo stesso Berlusconi iscrive virtualmente Nordio a Forza Italia e parla come fosse il suo primo sostenitore, ma tre mesi fa lo accettò a fatica, come un ukasesubito dalla vincitrice delle elezioni. In realtà l’ex magistrato incarna un’idea di riforma liberale della giustizia che non appartiene certo alla storia del berlusconismo, ma nemmeno a quella della Lega o di Fratelli d’Italia. Semmai egli riflette una certa impronta “meloniana”, tuttora da mettere a fuoco. Impronta che riguarda come la premier intende definire se stessa e l’azione del suo governo rispetto a uno dei temi più scabrosi: l’inefficienza della giustizia, specie quella civile, lo smarrimento del cittadino comune, fino allo strapotere — reale o percepito come tale — della categoria dei magistrati.
Nordio è stato chiamato per questo. Per andare oltre il progetto Cartabia e segnare un passaggio cruciale nel cammino del destra-centro. Velleitarismo? Lo capiremo presto. Certo, era necessaria fin dai primi passi una notevole sensibilità politica.
L’equivoco sulle intercettazioni ha invece offerto alle opposizioni — anche quelle interne al governo — il motivo per far inciampare il ministro e la sua riforma prima ancora di cominciare a discuterne. Non è infatti normale che Palazzo Chigi debba intervenire, ancora quasi agli esordi dell’esecutivo, per difendere una delle figure più importanti della compagine, facendole peraltro capire quali sono le corsie entro cui è consigliabile muoversi per non pregiudicare il futuro impianto riformatore.
Con ogni evidenza, la presidente del Consiglio non vuole rinunciare a Nordio. Ma lo invita a non commettere errori di inesperienza. «Non vogliamo lo scontro con i magistrati» ha detto ieri. Stessi toni da Salvini, che vuole ottenere nei prossimi giorni almeno un anticipo della riforma dell’autonomia regionale da poter esibire in campagna elettorale (soprattutto in Lombardia, s’intende). Come dire che il capo della Lega oggi si sforza di evitare incidenti di percorso in altri campi. Ma davvero Giorgia Meloni pensa che sia possibile riformare il sistema giudiziario nella chiave proposta da Nordio senza arrivare prima o poi allo scontro con un settore della magistratura? Se lo pensa sul serio, vuol dire che si prepara a edulcorare l’iniziativa riformatrice di fronte alla prima reazione ostile, magari salvando le apparenze. Ma la frase può essere interpretata in altro modo: inutile dar fuoco alle polveri sul punto delle intercettazioni, esponendosi a polemiche pubbliche e attacchi dei magistrati. Persino la soddisfazione esibita da Berlusconi è rischiosa, una sorta di bacio della morte. E tutto per un aspetto, solo un aspetto, della materia in discussione. Se un conflitto ci sarà, dovrà essere intorno al corpo complessivo della riforma.