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Perché negoziare è una priorità
Chi attacca un altro Paese (come Putin o Hamas) cosa vuole ottenere? Indurre il nemico a entrare nella spirale perversa del conflitto. Spingendolo a giocare nel terreno che proprio l’attaccante ha scelto.
Chi resiste cosa deve fare? Difendersi anzitutto, e opporsi a chi ha infranto le regole della convivenza. Ma, al tempo stesso, rifiutare la logica della ritorsione, cercando piuttosto di cambiare nuovamente la logica dell’interazione e le regole del gioco. Il che significa cercare attivamente, testardamente, in modo diretto e indiretto, le vie che possono fermare il conflitto e riportare la pace.
Non è mai facile resistere. Né tantomeno trovare una soluzione ai conflitti che insanguinano il mondo. Tanto più quando l’interlocutore si macchia di gravi responsabilità. Eppure, è questa la strada da ricercare, se si parte dal presupposto che la guerra è sempre una follia. Se (ma solo se!) siamo d’accordo su questa affermazione, allora, i tentativi negoziali hanno sempre una ragione. E non vanno abbandonati, fino a quando esiste la più piccola possibilità di riuscita.
Ripetiamo ancora una volta ciò che si è detto e scritto tante volte in questi mesi: la pace si fa in due. Ma, detto ciò, l’esperienza insegna che quando c’è un conflitto la pace si costruisce perché una delle due parti – non accettando la logica della guerra – persegue attivamente e creativamente vie alternative al solo uso delle armi.
Non si tratta di un pacifismo da “anime belle” che scaricano su altri il costo di una pace ingiusta. Si tratta del dovere irrinunciabile di tutti i costruttori di una pace giusta e duratura in tutti i tempi e in tutti i luoghi.
Disposti anche a correre il rischio di non essere compresi perché si rendono conto che l’automatismo della guerra, una volta innescato, procede senza più freni.
Dopo trent’anni di globalizzazione, il mondo è sull’orlo di una deflagrazione complessiva. I fronti di tensione sono tantissimi. Le ragioni di scontro molteplici. Proprio per questo è necessario un supplemento di saggezza. È l’idea stessa di politica che è destinata a cambiare. Perché, oggi come oggi, non c’è nessuno Stato e nessuna cultura che può pensare di esistere e di definirsi indipendentemente da ciò che ha intorno. Le interconnessioni sono troppe e troppo profonde. Per le autocrazie è un problema: i tentativi di soffocare la dissidenza sono destinati ad avere echi ovunque. Togliendo legittimazione agli sforzi propagandistici di ogni regime. Per le democrazie, invece, è una sfida: si tratta di trovare il modo di dialogare con mondi che seguono percorsi divergenti di evoluzione storica. Per certi versi incomprensibili. E a volte persino inaccettabili.
In questo mondo interconnesso è la stessa nozione di
“vittoria” che non ha più senso. Dato che vincere, oggi, oltre all’annichilimento della controparte, implicherebbe la messa a rischio della stessa vita sulla terra. Questa nuova condizione dell’umanità costringe al dialogo. L’unico futuro ragionevole è, infatti, quello di una “convivialità delle culture”. Un obiettivo lontano, anzi lontanissimo. Ma che dobbiamo tenere ben presente, perché è l’unica via sensata che possiamo percorrere. Per noi e per i nostri figli.
Da questo punto di vista, la posizione di papa Francesco non è quella di un’equidistanza che non riconosce le responsabilità o che mette sullo stesso piano aggressore e aggredito. È piuttosto lo sguardo realistico di chi vede la condizione dell’umanità all’inizio di questo XXI secolo. Dove risulta evidente il ritardo del pensiero politico, che continua a ragionare come se fossimo in epoche passate. Putin ha attaccato l’Ucraina come se fossimo nel secolo scorso. Immaginando che si trattasse di una questione regionale. È invece una questione globale che passa attraverso un luogo specifico. E questo vale per i tanti fronti di tensione che ci sono in varie parti del pianeta.
Se l’Occidente vuole continuare a svolgere un ruolo di guida a livello internazionale deve rispondere al gravissimo errore del leader russo nella consapevolezza del mondo che la globalizzazione lascia in eredità: in questo mondo interconnesso la guerra è ancora più assurda. L’impossibilità di una vittoria è invece uno stimolo straordinario per inaugurare una nuova stagione di dialogo multilaterale e quindi di processi di pace. Non c’è niente di facile in tutto questo. Non ci si arriverà in pochi mesi. Ci saranno errori, incertezze, sofferenze. Si discuta quindi sui prossimi passi da fare. Ma sia chiara la prospettiva che si vuole perseguire, fuori dalla quale ci sarà sconfitta per tutti.