Il dibattito in vista dei referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno è ruotato intorno a molti slogan e pochi numeri. È mancato un attento riferimento ai dati sul mercato del lavoro italiano, che potesse rendere giustizia alla necessaria profondità di dibattito che le cittadine e i cittadini meritano.
Un esempio concreto è sicuramente il tema dei contratti a tempo determinato, oggetto del terzo quesito referendario. Il primo fatto interessante da cui il dibattito non può prescindere è che l’incidenza dei tempi determinati è già tornata ai livelli osservati prima dell’introduzione Jobs act.
Nell’ultimo trimestre del 2024 rappresentavano il 14 per cento del totale dei lavoratori dipendenti, in calo continuo dal 17 per cento toccato nel 2022. Quattordici per cento era anche il valore che era stato toccato, appunto, nel 2014.
Inoltre, per la prima volta negli ultimi 20 anni, la riduzione dei tempi determinati è andata a braccetto con la crescita dell’economia: dal 2004 al 2020, al contrario, i tempi determinati aumentavano quando l’economia cresceva a viceversa.
Se in passato, quindi, tali contratti erano un modo per le aziende per cavalcare la crescita, salvo poi usarli come margine di aggiustamento in fasi di crisi scaricando sui lavoratori parte del rischio di impresa, la situazione sembra cambiata nel post-Covid.
Il contratto a tempo determinato sembra rientrare verso gli utilizzi più fisiologici che ne giustificano l’esistenza: da un lato, permettere alle aziende di rispondere rapidamente a fluttuazioni di breve termine nella domanda dei loro prodotti, dall’altro fornire uno strumento di valutazione dei dipendenti prima della trasformazione a tempo indeterminato.
Le ragioni dietro i numeri
Questi numeri si possono spiegare in diversi modi. In primo luogo gli interventi normativi del cosiddetto decreto Dignità del 2018, che hanno reso l’Italia il paese con la normativa più stringente in materia di tempo determinato tra le grandi economie europee.
Secondo l’Ocse nel 2018 eravamo al nono posto della graduatoria, e siamo poi schizzati al primo nel 2019. Insomma, misure molto importanti di contenimento dell’uso dei contratti a tempo determinato sono già state prese in Italia.
In secondo luogo a pesare è anche la “mutazione genetica” della demografia italiana: la popolazione in età da lavoro si restringe anno dopo anno e i lavoratori diventano sempre più scarsi e quindi preziosi per le aziende. Assumere e formare un lavoratore è un costo non indifferente per l’azienda.
Il flusso di tempi determinati
I promotori dei referendum fanno spesso riferimento, però, a un altro numero, ovvero la percentuale di tempi determinati rispetto al totale dei nuovi contratti attivati. Nel 2024 tale numero aveva toccato quota 83 per cento: poco più di 8 nuovi contratti su 10 erano a tempo determinato.
Questo numero può sembrare molto alto, ma va contestualizzato: in primo luogo è solo leggermente più alto dell’anno precedente l’introduzione del Jobs act, il 2014, quando era all’81 per cento. La crescita nel lungo periodo c’è stata, ma è avvenuta nel decennio precedente, quando si è passati da una percentuale inferiore al 70 per cento nel 2005 a una superiore all’80 per cento nel 2014, in corrispondenza con il dispiegarsi delle riforme dei primi anni Duemila.
Quello che invece è successo nell’ultimo decennio è stato un aumento del tasso di conversione da tempi determinati a indeterminati: su 100 contratti a tempo determinato attivati nel 2021, 7,6 sono stati convertiti in un tempo indeterminato, un valore che supera di molto i 4,7 del 2014. Il valore è poi calato a 6,2 nel 2022, pur rimanendo al di sopra degli anni subito precedenti il Jobs act.
Il vero problema: i salari
È improbabile che il quorum del 50 per cento venga raggiunto l’8 e 9 giugno, ma i referendum potrebbero essere una occasione utile per sgombrare il campo da alcuni fraintendimenti rispetto allo stato di salute del mercato del lavoro italiano.
Il fenomeno della “precarietà”, intesa come contratti di natura temporanea, è in diminuzione, grazie ai due ingredienti fondamentali di una sana economia: la crescita (anche se moderata) e le riforme (del periodo 2012-2018, che stanno ora dispiegando i loro effetti). La vera questione oggi è la mancata crescita dei salari, a sua volta dovuta all’assenza di vera crescita della produttività: su questo tema i quesiti referendari (e i loro promotori) sono invece silenti, così come lo è la maggioranza di governo.