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6 Marzo 2023Rossi, il suicidio senza verità
6 Marzo 2023
Sarah Gainsforth
A un anno dall’inizio della pandemia che ha provocato il crollo del settore più colpito di tutti, quello del turismo, l’idea che l’Italia possa “vivere di turismo” continua a esercitare un certo fascino. “Il turismo è il petrolio d’Italia”, titolava a fine gennaio 2020 una delle principali testate nazionali, Il Sole 24 Ore. Un mese dopo, a inizio marzo, lo svuotamento dei centri storici delle città d’arte mostrava quanto il turismo, settore ogni volta definito come centrale nell’economia italiana, si regga su fondamenta assai fragili – suggerendo peraltro, in tempi di crisi ambientale, la necessità di rivedere il paragone con il combustibile fossile. Già si erano levate voci a dire che no, il turismo – un settore a basso valore aggiunto, a bassa produttività, a bassa innovazione, a bassi investimenti e a bassi salari – difficilmente può essere considerato come strategico per la crescita economica del Paese. Ma il mantra del turismo petrolio d’Italia, espressione di una logica che cerca nel rimedio semplice – e nell’uomo forte – la soluzione immediata a problemi complessi, è dura a morire. Il discorso sul turismo continua a essere pervaso di luoghi comuni e slogan dietro i quali restano ignorate profonde contraddizioni. Il problema è duplice: la propaganda del turismo da una parte rimanda il confronto con la realtà, ovvero con quanto i buchi nella gestione del turismo in Italia alimentino ricchezza per pochi, disuguaglianze per molti, oltre che una percentuale consistente di economia sommersa. D’altra parte, questa retorica di fatto promuove un’idea di economia coloniale, dipendente da una domanda esterna, e una strategia adattiva tutto sommato pigra e obsoleta, oltre che fragile e insostenibile: puntiamo tutto sul turismo, perché ci è rimasto solo questo. Da una tale strategia al ribasso, così come da una visione binaria e semplicistica del turismo come salvezza o condanna dell’Italia, si può uscire solo indagando le contraddizioni e la complessità del tema.
All’inizio degli anni Ottanta il turismo mondiale era ancora limitato a poche destinazioni internazionali. L’Italia era il secondo paese per quota di mercato dopo gli Stati Uniti. Poi, con la riduzione dei costi per il trasporto, l’avvento dell’era del low-cost e il miglioramento delle condizioni salariali nelle economie emergenti, il turismo ha conosciuto un’espansione su scala globale. Negli ultimi vent’anni il numero di viaggiatori è raddoppiato, passando da 674 milioni nel 2000 a 1,3 miliardi nel 2017. Ma, anche a causa dell’affermarsi di nuove destinazioni turistiche, la quota di mercato dell’Italia si è più che dimezzata, passando dal 7,9% all’inizio degli anni Ottanta al 3,4% nel 2017. Il calo, nota la Banca d’Italia, se in parte fisiologico, è stato più intenso per la nostra penisola che per altri paesi europei: «Il peggiore andamento dell’Italia in termini di introiti turistici parrebbe dovuto principalmente ad aspetti (qualità dei servizi, dotazione infrastrutturale, sicurezza, accessibilità, politiche settoriali, innovazione dei prodotti turistici, ecc.) non legati all’andamento complessivo dei prezzi», si legge nel report Il turismo internazionale in Italia: dati e risultati del marzo 2013. Insomma il calo è in parte dovuto al fatto che l’Italia non ha investito, innovato e puntato sul turismo. Oltre gli slogan, la politica è rimasta inerte.
A partire dal 2010 c’è stato qualche miglioramento: la spesa turistica è aumentata a ritmi sostenuti, trainata dalle vacanze culturali nelle città d’arte. Di nuovo, ad aver pesato sull’aumento della spesa sono stati anche fattori esogeni quali le tensioni geopolitiche che hanno ridisegnato i flussi turistici nell’area del Mediterraneo. Intanto sono diminuiti gli introiti dai viaggi d’affari, la componente a più alto valore aggiunto della spesa per viaggi, passata dal 24% del totale nel 2011 al 13% nel 2019, anche per la frenata dell’economia nazionale. Si è trattato dunque di un miglioramento del turismo, o di un semplice aumento di flussi? Con i voli low-cost il numero di turisti è aumentato, ma la durata media dei viaggi è rapidamente scesa. E, anche per l’assenza di politiche mirate, la spesa turistica si è concentrata in poche zone dell’Italia: nel 2017 due macroaree nazionali e in particolare tre città (Roma, Venezia e Firenze) hanno assorbito gran parte della spesa turistica internazionale. Si è dunque trattato di uno sviluppo talmente accentrato e selettivo che, proprio all’alba della pandemia che ha bloccato il vorticoso flusso di merci e persone che attraversavano il globo, si era cominciato, anche in Italia, a parlare di overtourism: di troppo turismo. Il fenomeno della cosiddetta turistificazione delle città non è però casuale: da luoghi dove il turismo è una tra altre attività, le città vengono pensate, progettate, modificate per il turismo, a discapito di tutte le altre funzioni urbane, a partire da quella residenziale. Lo sfruttamento intensivo delle risorse a opera del turismo, non a caso descritto come attività estrattiva, desertifica il territorio, lo rende invivibile, lo uccide. Il troppo turismo modifica l’ecosistema urbano e naturale dei luoghi, trasforma il tessuto sociale, economico e culturale dei centri storici, danneggia l’ambiente, consuma e cancella le stesse caratteristiche alla base dell’attrattività dei luoghi.
Tecnicamente le destinazioni turistiche hanno una certa capacità di carico, ecceduta la quale il turismo diventa insostenibile. Infatti il turismo genera anche costi economici, sociali e ambientali. I benefici economici diminuiscono con la maturazione delle destinazioni, che esauriscono il proprio ciclo di vita se il turismo non è gestito in un’ottica di lungo periodo. Cosa che raramente avviene, perché per preservare un equilibrio tra le funzioni urbane bisogna necessariamente limitare il turismo. Ma gli effetti positivi della spesa turistica si registrano perlopiù in territori con livelli iniziali bassi di valore aggiunto pro capite e ridotti tassi di occupazione. Nelle località più turistiche, invece, «gli effetti del turismo diminuiscono o diventano negativi a causa dei costi della congestione o del possibile affollamento di altri settori, quando l’industria turistica si espande al punto di incidere in modo significativo sui prezzi e sui salari relativi locali», si legge nel focus della Banca d’Italia Turismo e crescita nelle province italiane. Quando il turismo non è gestito, o lo è soltanto in un’ottica di massimizzazione dei profitti nel breve termine, alla lunga i costi, socializzati, finiscono per superare i benefici. Non basta dunque citare i numeri dei visitatori in aumento per dire che l’economia va bene. Bisogna provare a capire che cosa questo aumento produce.
In Italia le entrate per viaggi internazionali nel 2019 sono aumentate del 6% rispetto all’anno precedente: hanno raggiunto i 44,3 miliardi, pari al 41% delle esportazioni di servizi. Si tratta di una cifra considerevole. Il turismo internazionale è cresciuto soprattutto con le vacanze in località balneari e montane. Quello nelle città d’arte, in verità, è leggermente diminuito a partire dal 2017, ma a questa componente è riconducibile il 60% della spesa totale per vacanze. Ma dove finisce questa spesa? Circa la metà della spesa turistica è destinata all’alloggio e alla ristorazione. L’Italia è prima in Europa per numero di strutture ricettive, a cui bisogna aggiungere gli alloggi privati: il boom delle case affittate a breve termine tramite portali come Airbnb ha modificato l’offerta ricettiva e con questa le città d’arte. Lo ha fatto al di fuori di qualsiasi norma che regolasse questa attività, distinguendo tra attività occasionale e attività imprenditoriale – dove la seconda è stata svolta, e continua a esserlo, come se si trattasse di mera “condivisone” di alloggi. Uno degli effetti documentati del boom degli Airbnb è che a Roma il 30% delle presenze turistiche non viene rilevata. Un dato che, semplificando, si traduce in un ammanco di 45 milioni di euro l’anno di tassa di soggiorno non versata nelle casse del Comune, a fronte dell’aumento degli utenti dei servizi pubblici locali e un guadagno – privato – medio mensile di duemila euro per una casa su Airbnb. Trasliamo il dato a livello nazionale, e chiediamoci come sia possibile che l’Italia attenda una norma sugli affitti brevi almeno dal 2017. Eppure i settori portanti dell’economia turistica, alloggio e ristorazione, sono gli stessi che, insieme al commercio e al trasporti, generano il 40% dell’economia sommersa in Italia, che vale il 12% del Pil – quanto il turismo e il suo indotto legale!
«Alcuni modelli di crescita nel nostro Paese dovranno cambiare. Per esempio, il modello di turismo» ha detto il premier Mario Draghi la mattina del 17 febbraio scorso nel suo discorso al Senato. «Il nostro turismo avrà un futuro se non dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare, e almeno non sciupare, città d’arte, luoghi e tradizioni, che le generazioni attraverso i molti secoli hanno saputo proteggere e ci hanno tramandato». Qualche ora dopo, nella replica al termine della discussione generale, il tono del premier era diverso: «Sul turismo stamattina ho accennato al fatto che alcune imprese potranno non riaprire dopo la pandemia. Ma una che certamente riaprirà è proprio il turismo: quindi investire nel turismo e sostenerlo non significa buttare via i soldi, perché quei soldi tornano indietro», ha dichiarato Draghi. La breccia aperta nel fianco della retorica sul turismo si è subito richiusa. E il turismo è finito in posizione centrale nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, nel terzo ambito di intervento della prima missione, nell’ormai classico binomio turismo-cultura – la seconda in un ruolo ancillare.
Turismo e cultura, «settori che più caratterizzano l’Italia e ne definiscono l’immagine nel mondo», meritano particolare attenzione «sia per il loro ruolo identitario, sia per l’“immagine” e il “brand” del Paese a livello internazionale, nonché per il peso che hanno nel sistema economico», si legge nel Piano. Gli investimenti previsti mirano a «migliorare la capacità attrattiva» dell’Italia e saranno direzionati sia ai “grandi attrattori” che nei territori più marginali. Il problema della logica della valorizzazione turistica, però, è che indirizza la spesa pubblica non dove serve di più ma dove è più remunerativa, favorendo i divari territoriali. Poi, quando la domanda turistica scompare, come è già avvenuto in numerose aree costiere e montane del Paese, le economie locali da essa dipendenti si contraggono. E richiedono salvataggi pubblici. Ad agosto 2020 il governo ha stanziato 500 milioni di euro per sostenere le attività commerciali nelle città d’arte colpite dalla pandemia, assegnati in base al grado di vocazione turistica locale. Così Venezia è risultata prima di una lista che comprende soltanto nove città meridionali. Nonostante questo modello sia palesemente insostenibile, si continua a presentare il turismo come soluzione a problemi economici che esso stesso contribuisce a generare.
Il tema dell’overtourism è affrontato nel PNRR nell’ottica di spostare i flussi dai centri più turistici ai “borghi” e alle aree rurali del Paese, «contrastando lo spopolamento dei territori e favorendo la conservazione del paesaggio e delle tradizioni», valorizzando «la produzione legata al mondo agricolo e l’artigianato tradizionale», con buona pace di quanti sostengono la necessità di aggiornare una rappresentazione del Paese basata sulla contrapposizione tra la dinamicità urbana e l’immobilità di territori marginali, «custodi delle tradizioni». Se i borghi per sopravvivere devono soddisfare gli immaginari turistici, non va meglio per i parchi e i giardini storici urbani, individuati come centrali in una non meglio definita strategia di rigenerazione per «valorizzare l’identità dei luoghi».
La cultura è intesa come identità e il turismo come leva per la sua valorizzazione economica. Siamo, di nuovo, confinati entro una cornice neoliberista. Da campi distinti e compensativi dell’ambito economico, del lavoro e della produzione di profitti, turismo e cultura sono finiti per essere assorbiti, fino a diventare dei veri e propri perni, nei processi di accumulazione del capitale. Il turismo come pratica individuale, connessa alla libertà di scelta di alcuni, al piacere, al tempo libero e a una certa capacità di spesa, è diventato centrale nelle politiche economiche come motore di sviluppo locale e nazionale. La produzione di narrazioni e di contenuti immateriali contribuisce a questa crescita e trasforma lo spazio fisico. I luoghi, riqualificati per attrarre capitale e persone, sono gestiti come prodotti in vendita con campagne di marketing e branding turistico, con lo stanziamento di fondi pubblici per eventi e progetti di rigenerazione che “valorizzano” territori-vetrina. «Il territorio si trasforma in offerta turistica se la domanda potenziale si trasforma in domanda pagante», si legge in un testo di economia turistica. L’identità dei luoghi, i segni, i simboli e le tradizioni che la costituiscono, sono centrali: infatti il territorio non è solo lo spazio ma l’oggetto stesso del consumo. Questa politica “industriale” dell’Italia, altrimenti assente nel Piano, è basata su rendite di monopolio. Il paradosso di questo modello è che la mercificazione delle identità culturali, la messa a valore delle loro caratteristiche di unicità e autenticità, finisce per cancellarle attraverso il meccanismo di appropriazione, coprendo sotto una coltre omologatrice i segni di distinzione su cui fonda l’estrazione di valore. È questo modello che il Piano esprime: ancora, il turismo – per dire la rendita – come volano di sviluppo per città svuotate dalla pandemia e paesi lasciati indietro. Territori e popolazioni esclusi dal controllo delle risorse, su cui si scaricano i costi ambientali e sociali. È lo stesso modello di consumo solo apparentemente low-cost, affermatosi negli ultimi decenni e da ultimo alla base del dominio dell’economia delle piattaforme digitali, che illude il cittadino-cliente nascondendo il suo impoverimento, scaricando i costi altrove. Per esempio su molti dei lavoratori dei settori della cultura e del turismo, tra i più colpiti al blocco delle attività nel primo anno della pandemia: precari, intermittenti, stagionali, sottopagati, pagati in nero, volontari, invisibili.
Parlare di turismo sostenibile significa allora partire da qui. Dal basso, dalle persone, dai diritti. Dalle idee e dalle energie, dalle competenze locali e dalla partecipazione reale alla trasformazione dei territori. Dalle macchine amministrative, dagli uffici e dal personale necessario sia alla lettura dei fenomeni che investono i contesti urbani e naturali, che ad attuare scelte e decisioni non più rimandabili, verso una gestione del turismo con obiettivi di qualità sociale. Perché se è vero che non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale, non c’è crescita economica senza una crescita sociale. Ma bisogna superare il fascino per le rendite di monopolio. Poi si può parlare di redistribuzione di flussi, di percorsi turistici alternativi, di potenziamento dell’offerta turistica in contesti marginali. E magari si può tornare a viaggiare in un mondo più equo e più sano, oltre la retorica vuota sul turismo.