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7 Settembre 2024Oltre Sangiuliano c’è di più? Il dramma della classe dirigente meloniana è lì, ma un’alternativa c’è già: uscire in fretta dalla stagione del complottismo
Colle Oppio c’è di più? Mettiamo per un attimo da parte le ultime puntate della Sangiuliano story, mettiamo per un attimo da parte le puntate sugli imbarazzi di governo, mettiamo per un attimo da parte i pettegolezzi sulla signora Boccia e proviamo a concentrarci per qualche istante su un punto rilevante che emerge tra le righe delle peripezie di Gennaro Sangiuliano, già giustamente ribattezzato in tempi non sospetti dal suo vecchio Tg, il Tg2, Giuliano Sangennaro, ed effettivamente il modo in cui il ministro della Cultura si è infilato da solo nei guai è così prodigioso da essere miracoloso, e bene ha fatto ieri Giorgia Meloni a spingere il ministro a presentare finalmente dimissioni irrevocabili. Il tema che vale la pena affrontare è questo e riguarda una delle questioni centrali del potere meloniano: la sua classe dirigente. C’è un problema con la classe dirigente meloniana? La prima risposta, quella istintiva, è sì, ovviamente sì, come potrebbe non esserci. E non ci vuole molto a fare qualche esempio, per illuminare il problema. Alcuni tra i ministri più in difficoltà nel governo sono quelli scelti da Fratelli d’Italia, oltre a Gennaro Sangiuliano Sangennaro, ormai ex ministro,
c’è il ministro Adolfo Urso detto Urss (costretto, ma è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di insuccessi, a rimangiarsi la scorsa settimana all’ultimo un disegno di legge sui carburanti, causa rivolta di un intero settore). Oltre al ministro Urso c’è il ministro Daniela Santanchè (che al netto di una possibile richiesta di rinvio a giudizio non è ancora riuscita a dare risposte convincenti sul tema delle presunte irregolarità della sua società nella fruizione della cassa integrazione durante il Covid). Oltre al ministro Santanchè c’è il ministro Francesco Lollobrigida (ricordate la sostituzione etnica?). Per non parlare poi della qualità non esattamente sopraffina incarnata (a) dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che si è recentemente vantato di non essersi mai recato, andando nelle carceri, alla “Mecca dei detenuti”; (b) dall’onorevole Emanuele Pozzolo, che non ha ancora spiegato come sia stato possibile che a una festa di fine anno, il 31 dicembre scorso, sia partito dalla sua pistola un colpo che stava per uccidere uno dei presenti; (c) dal presidente del Senato Ignazio La Russa, di Fratelli d’Italia anche lui, con busti di Mussolini annessi nella sala da pranzo; (d) dall’onorevole Giovanni Donzelli, che in Aula, mesi fa, ha attaccato l’opposizione utilizzando materiale coperto da segreto
consegnatogli verbalmente dal suo coinquilino e compagno di partito Delmastro. C’è tutto questo, ovviamente, ma il racconto del senso di Giorgia Meloni per la sua classe dirigente sarebbe gravemente incompleto senza l’altra metà della luna. E senza mettere insieme alcune storie diverse. La classe dirigente di Meloni è fatta anche di altri soggetti, e di altri criteri, che potremmo suddividere in tre piccole categorie. Categoria numero uno: gli esponenti del governo capaci, responsabili, apprezzati trasversalmente, sempre del giro meloniano. Esponenti come Raffaele Fitto, prossimo commissario europeo, ben visto anche dall’opposizione. Esponenti come Guido Crosetto, le cui posizioni sulla Difesa spesso non sono distanti dal corpaccione atlantista e progressista. Esponenti come Carlo Nordio, le cui riforme sono state sostenute anche da un pezzo dell’opposizione, quella centrista.
Classe dirigente
Esponenti come Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, stimato anche dai suoi avversari, oltre che dal Quirinale. Quattro esponenti con storie diverse che hanno però una caratteristica comune: nessuno di loro può essere considerato parte della famiglia di Colle Oppio – la storica sezione romana dove è cresciuta la destra meloniana, sezione che conosce bene anche il nuovo ministro della Cultura Alessandro Giuli, vecchio fogliante, a cui va il nostro abbraccio e il nostro affettuoso augurio di buon lavoro. E tutti i soggetti in questione arrivano da percorsi diversi, moderati (Crosetto e Fitto erano in Forza Italia, Nordio è un magistrato, Mantovano pure). La categoria numero due riguarda un genere raro, nel mondo meloniano, ma è un genere che inizia ad affacciarsi dopo qualche anno, seppur lentamente. In poche parole: la valorizzazione di una classe dirigente non di destra ma di cui la destra può provare a fidarsi. Un caso su tutti è quello di Daria Perrotta, che in passato ha lavorato anche con i governi di centrosinistra in ruoli importanti, e che il governo Meloni ha promosso alla guida della Ragioneria dello stato, su grande insistenza del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Stimata da molti, anche dalla
stessa opposizione, anche se per qualche ora qualcuno, tra il Pd e il M5s, ha alzato alcune barricate per provare a proteggere l’ex ragioniere Biagio Mazzotta, meritoriamente accompagnato all’uscita dal governo dopo i disastri combinati con il Superbonus. La terza categoria, quella che si è rivelata finora più efficiente, coincide con le figure su cui la premier ha scommesso per alcune nomine strategiche, figure che incarnano un’attenzione di Meloni per una parola che un tempo era estranea al suo vocabolario: continuità con il passato. I casi sono molti. Ci sono i vertici di Cdp (Dario Scannapieco), di Poste (Matteo Del Fante), di Eni (Claudio Descalzi) e volendo anche Roberto Cingolani (ad di Leonardo proveniente dalla cantera del draghismo). E poi. Il direttore dell’Agenzia delle entrate (Ernesto Ruffini). Il capo dell’Agenzia del demanio (Alessandra dal Verme). Questi profili, di discreto successo, ai quali si potrebbe aggiungere Flavio Cattaneo, ad di Enel, che fa parte di una classe dirigente non in continuità con il passato ma che non ha fatto rimpiangere il passato, anzi, hanno una caratteristica interessante. Un tratto comune. Sono tutti volti e profili che non vengono dal giro meloniano e sono volti di cui Meloni si è fidata per questioni legate non all’appartenenza, all’amichettismo avrebbe detto un tempo il ministro Sangiuliano, ma per questioni
legate al merito. Se c’è qualcosa che il caso Sangiuliano, insieme ai molti altri che hanno toccato in questi mesi parte della classe dirigente, può insegnare a Meloni è proprio questo: più la premier tenderà pregiudizialmente a fidarsi poco dei volti che non appartengono alla sua storia e più il governo sarà vittima di se stesso. Più la premier imparerà invece a governare il complottismo che la perseguita, aprendo le porte del suo partito, allargando il proprio perimetro, e più la classe dirigente meloniana potrà fare una fine diversa da quella di Sangiuliano. L’opposizione si sta riorganizzando, è vero, ma il nemico principale di Meloni resta sempre Meloni. Cambiare e crescere oppure appassire e ingiallire. La scelta è chiara, trovare la strada giusta forse si può. Non serve un miracolo, per quelli ci pensa Giuliano Sangennaro: basta solo volerlo.