ROMA — Ci sono due nuovi indagati nell’inchiesta sull’omicidio del presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella, assassinato il 6 gennaio 1980 a Palermo. Si tratta di soggetti legati alla mafia accusati di essere stati i sicari dell’esponente della Dc, fratello del Capo dello Stato Sergio Mattarella.
Allievo di Aldo Moro, Piersanti Mattarella era lontano dal cliché del notabile siciliano e ha pagato con la vita il suo impegno politico di rinnovamento. Per questo agguato sono stati condannati definitivamente solo i mandanti, cioè i boss che facevano parte della commissione di Cosa nostra che ha deliberato la condanna a morte. I giudici hanno invece prosciolto definitivamente Valerio “Giusva” Fioravanti e Gilberto Cavallini, terroristi neri, dall’accusa di essere stati gli esecutori, come aveva ipotizzato Giovanni Falcone che indagò su questo delitto eccellente. Il magistrato aveva puntato sul coinvolgimento del terrorismo nero come esecutore materiale dopo una lunga istruttoria. Un’indagine in cui si sono registrati depistaggi e false informazioni.
Falcone teneva a specificare che «c’è una matrice mafiosa nel delitto Mattarella». Per lungo tempo i sicari sono stati coperti, facendo credere che a sparare potessero essere stati uomini che non appartenevano a Cosa nostra, come pure, accanto ai mafiosi avrebbero potuto esserci, secondo quanto detto dal magistrato durante una sua audizione in Commissione antimafia, anche «mandanti esterni».
Un dato è certo, l’agguato al presidente della Regione siciliana viene compiuto nel territorio controllato dal capomafia Francesco Madonia, che ha sempre avuto rapporti con apparati istituzionali deviati. I principali personaggi che avrebbero potuto compiere l’omicidio in questa zona non sono mai stati riconosciuti in foto dai testimoni. Il riferimento è ai sicari come Prestifilippo, Lucchese, Inzerillo o Marino Mannoia che facevano parte della batteria della morte di Madonia. Nessuno di loro è stato riconosciuto da chi ha assistito all’agguato.
Il commando entra in azione la mattina del 6 gennaio 1980 davanti all’abitazione del politico in pieno centro a Palermo. Il killer, come racconteranno i testimoni, è un giovane appostato davanti al garage in cui Mattarella sistema la sua auto. Il presidente della Regione è al volante, al suo fianco c’è la moglie, Irma Chiazzese. Il sicario si avvicina velocemente ed esplode i primi quattro colpi attraverso il finestrino. Poi la Colt modello Cobra calibro 38 special si inceppa. Quindi il killer si avvicina ad una Fiat 127 dove c’è un complice che gli passa un revolver Smith & Wesson. Con questa arma il killer torna a sparare altri quattro colpi contro la vittima e ferisce la moglie.
La calibro 38 è la stessa pistola utilizzata dal killer neofascista Gilberto Cavallini per assassinare a Roma il magistrato Mario Amato il 23 giugno 1980. Un’arma per due delitti apparentemente legati da un filo nero.
L’assassino di Mattarella è a volto scoperto e viene visto da altri cinque testimoni: è un uomo sui 25 anni, con l’aspetto da bravo ragazzo, alt o circa un metro esettanta, corporatura robusta, capelli castani, occhiali scuri a specchio. La vedova di Mattarella aiuta a disegnarne l’identikit e poi riconosce il capo dei Nar, Valerio Fioravanti, nelle foto pubblicate dopo l’arresto, come una persona molto simile a lui. «Quando dico che è probabile che nel Fioravanti si identifichi l’assassino, intendo dire che è più che possibile », precisa la testimone, «ma non sono in grado di formulare un giudizio di certezza». Nel luglio 1986 la vedova aggiunge un particolare: il killer aveva uno strano modo di camminare, «un’andatura ballonzolante». Neofascisti e mafiosi uniti per uccidere un politico della Dc?
Alla fine degli anni Novanta l’ex mafioso Francesco Di Carlosvela ai pm che a sparare a Mattarella è stato Antonino “Nino” Madonia, figlio di Francesco, un personaggio borderline, coinvolto in altri delitti eccellenti. Il collaboratore spiega ai magistrati che il modo di camminare di Nino e il suo volto, somigliano moltissimo a quello di Giusva Fioravanti. «È praticamente un sosia di Madonia. Stessa faccia da bambino e stessi occhi di ghiaccio», dice Di Carlo.
Nino Madonia, il pezzo grosso, il Dio di Cosa nostra. A definirlo così è il mafioso Vito Galatolo: «Per noi, sia per me che per mio padre, la famiglia Galatolo, sia per tutti gli altri uomini d’onore, è vero che Totò Riina era il numero uno assoluto, però per tutti i carcerati per tutti… Nino Madonia era il numero uno assoluto di Cosa nostra. Dove passava Nino Madonia passava Dio, di Cosa nostra però». Può sembrare una definizione non solo blasfema ma eccessiva, eppure in certi ambienti un curriculum come il suo fa colpo. Enfant prodige di una famiglia storica della mafia, già a 18 anni ha un ruolo attivo nel clan. Nel 1970 i Madonia si dilettano in attentati che scuotono le festività natalizie a suon di bombe “eversive”. È il primo frutto avvelenato di un rapporto lungo e dannato con apparati deviati dei servizi segreti. I Madonia sono quasi il braccio armato della corrente più anomala e oscura dello Stato: i servizi deviati comandano, loro eseguono. Sono coinvolti anche nel fallito golpe Borghese. Ilpater familias Francesco “Ciccio” Madonia, che a forza di attentati si è guadagnato il soprannome “Ciccio Bomba”, gestisce di persona questa “strategia della tensione mafiosa”. E chi si occupa delle indagini sulle bombe piazzate dai Madonia nel 1970 è Bruno Contrada. Cinque obiettivi, cinque bombe nella notte di Capodanno che saluta l’alba dell’anno di grazia 1971. La passione per le trame segrete si trasmette per via ereditaria, a quanto pare, perché anche Nino Madonia parla con alcuni apparati dei servizi. Dagli anni Settanta in poi è una famiglia che può vantare una forte e salda lealtà allo Stato corrotto e deviato. Quello sbagliato. Forse non è solo una coincidenza, ma anche la strage di via D’Amelio con i suoi depistaggi ricade nel territorio dei Madonia.
Chi inquadra dal primo momento il delitto Mattarella in un contesto politico-mafioso è il collaboratore Francesco Marino Mannoia, mentre per Tommaso Buscetta tutta la Commissione era d’accordo nell’uccisione di Mattarella. Nessuno però voleva fare il primo passo per non esporsi. Giovanni Falcone ha dichiarato nel 1990 in Commissione antimafia che l’uccisione dell’esponente politico «presuppone un coacervo di convergenze di interessi di grandi dimensioni».
Accanto a queste dichiarazioni la procura di Palermo, guidata da Maurizio de Lucia che coordina l’inchiesta assieme all’aggiunto Marzia Sabella, ha raccolto nuove rivelazioni, nuovi dati e riscontri — tutti coperti dal massimo riserbo — che rafforzano il quadro dell’accusa nei confronti dei nuovi indagati. Questo potrebbe essere il contesto che può portare a sostenere il nuovo processo per gli esecutori dell’agguato dell’Epifania di 45 anni fa.