Carlo Petrini
Prima è stato il turno dei combustibili fossili. Ora dei sistemi alimentari. Mi riferisco all’elefante nella stanza dei dibattiti sulla crisi climatica. Malgrado la Cop28 di Dubai abbia dedicato una giornata alla trasformazione dei sistemi alimentari, il tema non è poi entrato nell’accordo finale del vertice. Eppure la scienza è chiara: se non trasformiamo i sistemi alimentari, le emissioni a essi collegate (37 per cento del totale), da sole, causeranno il superamento di +1,5 gradi di temperatura, poco oltre il 2050. Possiamo azzardarci a dire che il cibo ci sta mangiando. Si tratta di un cibo omologato, globale e poco naturale che mangia l’ambiente, inquinandolo, i contadini, non riconoscendo un reddito adeguato e in certi casi rendendoli schiavi dell’agroindustria, e noi cittadini, facendoci ammalare.
Ci troviamo di fronte a un enorme problema e non possiamo più fare finta che non esista. Riguarda direttamente ognuno di noi perché il cibo è la fonte primaria di energia che ci tiene in vita. Quindi, le scelte alimentari che ognuno di noi fa più volte al giorno, se compiute con consapevolezza, sono una leva politica potente, nonché democratica, per cambiare lo stato di cose partendo dal quotidiano.
Le lobby dell’agroalimentare vogliono farci credere che, per sfamare 8 miliardi di persone, e in futuro 10, servano più tecnologia e una maggiore intensificazione delle colture. Ecco allora che si parla di soluzioni quali l’agricoltura digitale (come è emerso anche alla Cop28) o i nuovi Ogm, per esempio.
Sono convinto che per alimentare una popolazione crescente sia necessario tutelare la sovranità alimentare dei territori. Come fare? Privilegiando cibi locali, coltivati rispettando l’ambiente, e dunque d’accordo al mutare delle stagioni e della biodiversità del territorio. Con la prossimità scegliamo alimenti che non hanno viaggiato (e inquinato) per migliaia di chilometri per arrivare sulle nostre tavole.
Inoltre sosteniamo l’economia locale e il lavoro degli agricoltori del territorio: custodi della nostra sopravvivenza e della bellezza del paesaggio. Scegliendo prodotti provenienti da un’agricoltura di tipo rigenerativo, quali l’agroecologia, tuteliamo la fertilità dei suoli, rispettiamo i cicli della natura e contribuiamo a preservare le varietà delle colture. Ricordiamoci che senza suoli sani (il 70 per cento di quelli europei sono degradati per via di agricoltura e zootecnia intensive), e biodiversità siamo più esposti alle conseguenze della crisi climatica (desertificazione, malattie che colpiscono le piante ecc.). Poi è importante evitare il consumo di cibi ultra processati, spesso ricchi di calorie e additivi artificiali e poveri di sostanze nutritive. Oltre a giovare alla salute, si eludono processi di lavorazione altamente energivori e non si gonfia il portafogli di poche aziende multinazionali.
Come italiani ci fregiamo di avere uno dei regimi alimentari tra i più sani al mondo: la dieta mediterranea. Da tempo abbiamo però smesso di metterne in pratica i precetti, al punto che oggi l’Italia registra un tasso di obesità tra più alti d’Europa, con 4 persone su 10 in sovrappeso. Un’altra azione da intraprendere è ridurre l’acquisto di alimenti avvolti in imballaggi plastici. Dopo aver assolto al suo uso (sempre più breve) la plastica finisce ovunque, e oggi sta letteralmente inondando i mari. Non solo, uno studio dell’Università di Newcastle (Sydney) afferma che ogni settimana mangiamo 5 grammi di microplastiche, l’equivalente in peso di una carta di credito. Che dire poi dello spreco alimentare che è diventato l’emblema della nostra società dell’abbondanza, ma che non è comunque in grado di eliminare lo scempio della fame. Produciamo alimenti per 12 miliardi di viventi e siamo meno di 8; oltre il 30 per cento del cibo viene buttato via. Se lo spreco fosse un Paese sarebbe il terzo per emissioni di Co2 dopo Stati Uniti e Cina. Abbattendo lo spreco, a cascata risparmieremmo milioni di ettari coltivati inutilmente e miliardi di litri di acqua, (risorsa che a causa della crisi climatica scarseggerà sempre più), utilizzata nell’irrigazione o per l’allevamento. A proposito di allevamento: si stima che le emissioni delle prime cinque aziende produttrici di carne siano maggiori di alcune tra le principali compagnie petrolifere (Shell, BP). Inoltre il consumo in eccesso di proteine animali favorisce malattie quali diabete, obesità e patologie cardiovascolari. E non tutela il benessere animale e la biodiversità: il 50 per cento dei mammiferi vivono in allevamenti intensivi e si riducono a un pugno di razze. Aumentare il consumo di proteine vegetali, quali le leguminose e diminuire quelle animali scegliendo la qualità (razze locali, allevamenti estensivi) quando decidiamo di mangiarle, sono azioni che richiedono un piccolo sforzo a fronte di molteplici benefici.
In un momento storico in cui è difficile vedere qualcuno agli alti livelli che si batte per una visione del futuro, mentre la crisi climatica galoppa, seguire queste raccomandazioni attesta un modello di cittadinanza attiva in cui le persone sono consce del potere che hanno tra le mani. Attraverso i nostri comportamenti alimentari, possiamo orientare i mercati e fare in modo che anche le istituzioni arrivino a decisioni più consapevoli. Questa è la nuova politica. Lo dico in modo inequivocabile: chi ci governa viene dopo, il “la” deve arrivare dalla società civile. Le fondamenta per una società viva e prospera non sono l’economia, il denaro o il commercio; ma persone attive e cariche di speranza in un futuro migliore.