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30 Dicembre 2025
Il Natale di Siena: tra investimento pubblico e identità della città
30 Dicembre 2025Ogni tanto Siena “scuote il mondo della cultura”. Almeno così raccontano articoli che si rincorrono e si citano a vicenda con sorprendente uniformità di toni e giudizi. Basta leggerli con attenzione per accorgersi che nascono all’interno dello stesso circuito di relazioni culturali, dove ruoli diversi — critici, curatori, dirigenti, commentatori — tendono spesso a sovrapporsi. Non si tratta di malafede, ma di struttura: quando il perimetro del discorso è ristretto, il consenso finisce per prodursi da sé.
In questo contesto il giudizio diventa prevedibile. L’entusiasmo precede la verifica, la narrazione prende il posto dell’analisi, la legittimazione circola all’interno dello stesso ambito che la genera. Il vino risulta sempre eccellente perché chi lo serve, chi lo assaggia e chi lo racconta appartengono allo stesso ecosistema culturale.
È dentro questo meccanismo che vanno letti due fatti recenti, diversi ma legati da una medesima retorica: da un lato la mostra al Santa Maria della Scala, celebrata come “dialogo profondo”, “spiritualità inquieta”, “relazione con la memoria del luogo”; dall’altro l’annuncio — per ora solo annuncio — di una grande riscoperta del Vecchietta alla Frick Collection. Due piani distinti, accomunati però da uno stesso dispositivo narrativo: molta enfasi, poca verifica; molto racconto, scarsa autocritica.
Partiamo dal Santa Maria della Scala. Il problema non è l’artista, né il diritto di ospitare opere contemporanee in uno spazio storico. Il nodo sta nell’idea di spazio che da anni guida questi allestimenti. L’ex ospedale viene trattato come un contenitore neutro, una scenografia suggestiva adatta a qualunque progetto purché produca atmosfera. Ma il Santa Maria non è una white cube né un fondale emozionale. È un organismo storico complesso: un edificio-laboratorio, stratificato, funzionale, nato per il lavoro, la cura, l’amministrazione, la vita quotidiana. Ignorare tutto questo significa ridurlo a immagine.
Qui l’allestimento non dialoga con l’architettura: la occupa. Non la interroga: la utilizza. Le opere non entrano in tensione con gli spazi, non ne leggono le funzioni originarie, non attraversano la loro storia materiale. Si limitano a “stare bene dentro”, secondo un’estetica ormai codificata del sacro contemporaneo: luci basse, atmosfera sospesa, simbolismo allusivo, pathos controllato. Funziona, certo. Ma funziona ovunque. Potrebbe essere Siena come Berlino, Lisbona o una ex fabbrica riconvertita. Ed è proprio questo il problema.
Si parla molto di spiritualità, ma senza conflitto. Di memoria, ma senza attrito. Di sacro, ma reso elegante, neutralizzato, consumabile. Nessuna frizione con la storia reale del luogo, con la sua funzione ospedaliera, con la sua dimensione civile e sociale. Nessuna domanda scomoda. Nessun rischio. Solo una messa in scena levigata, perfettamente compatibile con il circuito internazionale delle mostre di medio-alto profilo.
Accanto a questo, prende forma il capitolo Vecchietta, che meriterebbe un discorso autonomo e invece resta, per ora, un’operazione annunciata, evocata, promessa. Se ne parla molto, ma non c’è ancora nulla da vedere. Eppure viene già trattata come un evento acquisito, quasi una consacrazione preventiva. Qui la retorica raggiunge il suo punto più scoperto.
Che il Vecchietta sia una figura straordinaria non è una scoperta recente. La sua complessità, la sua natura ibrida, la difficoltà di collocarlo entro categorie stabili sono note da tempo alla storiografia. Che meriti una rilettura ampia e rigorosa è fuori discussione. Ma colpisce il modo in cui questa rilettura viene raccontata: come se dovesse passare necessariamente da New York per diventare legittima; come se Siena potesse solo assistere, riconoscente, al riconoscimento esterno.
Il paradosso è evidente. Si parla di un artista profondamente senese, ma la città non riesce — o non tenta — di costruire un progetto critico, museografico e scientifico all’altezza. Nessun vero dibattito pubblico. Nessun confronto sulle forme dell’allestimento. Nessuna riflessione su come raccontare oggi Vecchietta nei luoghi che lo hanno generato. Solo attesa, deferenza, orgoglio riflesso.
Nel frattempo si continua a confondere promozione con pensiero, visibilità con progetto, networking con politica culturale. Siena appare così sempre “al centro”, ma solo perché qualcuno la nomina. Una centralità per delega, non per forza propria.
Il punto non è negare il valore delle iniziative né colpire singole persone. Il punto è chiedersi perché, da anni, la città rinunci a una vera idea critica di sé. Perché accetti allestimenti che non interrogano i luoghi. Perché scambi il riconoscimento esterno per qualità intrinseca. Perché preferisca la rassicurazione alla ricerca.
Siena non avrebbe bisogno di essere “rilanciata” dal mondo. Avrebbe bisogno di tornare a pensarsi come laboratorio, nel senso forte del termine: spazio di prova, di errore, di conflitto intellettuale. Un luogo in cui la storia non fa da sfondo, ma da problema. Dove l’arte non consola, ma disturba. Dove il passato non viene celebrato, ma messo in discussione.
Finché questo non accadrà, continueremo a leggere articoli entusiasti, tutti simili tra loro, scritti come brindisi reciproci. E continueremo a chiederci, con un sorriso amaro: oste, com’è il vino? Buonissimo, certo. Ma sempre lo stesso.
Il Santa Maria e la sua ombra. Quando l’arte diventa decorazione dell’identità





